«Sanremo? Cantarlo è facile, scriverlo un po' meno»: parla Rubino, capo-autore del Festival

«Sanremo? Cantarlo è facile, scriverlo un po' meno»: parla Rubino, capo-autore del Festival

di Totò Rizzo

A cantare Sanremo siamo bravi tutti: i cantanti – ché è il loro mestiere – davanti a un microfono e con l’orchestra, noi sotto la doccia o su Spotify con le cuffiette. Ma a scrivere Sanremo, il festival, come si fa? Come si fa a mettere nero su bianco il grande romanzo popolare che si rinnova, pure immutabile nella liturgia, una volta l’anno, tra sorrisi e note, gara e classifiche, superospiti e balletti?

Sergio Maria Rubino, 56 anni, da 30 autore televisivo, è a capo del team di «menti pensanti» che imbastisce lo show. Al terzo Sanremo con Amadeus, ne ha fatti anche con Bonolis, Fazio, Baudo più tanta altra tv, da Mtv alla Dandini, dagli show di Fiorello alle direzioni artistiche del Primo Maggio, la grandeur dell’intrattenimento di prima serata e la sperimentazione di nuovi format. Con Paolo Biamonte (firma storica e, insieme con lui, “ombra” del direttore artistico/conduttore), Barbara Cappi e Martino Clericetti (angeli custodi delle co-conduttrici), Massimo Martelli (cui era affidata la “cura” degli artisti in gara) e Ludovico Gullifa (il “mago” della scaletta) ha scritto la 72ª edizione del Festival della Canzone Italiana, già agli archivi ma ancora nell’eco.

Tracciamo un identikit dell’autore di Sanremo.

«È un sarto che deve saper creare l’abito sul modello, dalle imbastiture ai dettagli. La linea editoriale la traccia il direttore artistico e tu devi costruire lo spettacolo su quella, ovviamente tenendo conto di tutti gli elementi, dalla stoffa al colore, allo stile e cioè la scenografia, le luci, la grafica, la regia, armonizzando pensiero e tecnica, il copione e la sua rappresentazione sul palco».

Ci vogliono idee chiare in partenza.

«Amadeus le ha chiarissime, per fortuna. E poi è un secchione, un pignolo, attento al particolare, un lavoratore instancabile. Tra settembre e ottobre si cominciano a buttar giù le basi intorno a un’idea che fa da perno, poi si pensa agli ospiti e da qui a creare quello che io chiamo un fluido narrativo. È un lavoro da bottega artigiana. Prima di mettersi a scrivere centinaia di fogli, bisogna anche saper fiutare l’aria che tira: dall’atmosfera sociale ai temi delle canzoni».

Ecco, Sanremo è soprattutto una gara. Quanto è un limite con il suo meccanismo?

«Per un autore sta qui il bello ma anche il difficile del festival. Sanremo, dice uno slogan, è al centro della musica. Devi sapere ruotare intorno a questo centro, entrare e uscire dalla cerimonia, creare un raccordo tra lo spettacolo e la liturgia ma anche umanizzare quest’ultima, farla pulsare, vibrare, sdrammatizzarla pur lasciandone inalterata la tensione. E creare empatia con gli artisti in concorso: noi amiamo tutti i cantanti, alla stessa maniera, veterani e debuttanti».

Tutto rigorosamente scritto?

«Quasi tutto. Ma ad Amadeus, per esempio, piace anche essere stupito. Quando c’è Fiorello, giuro, lui non sa mai cosa dirà o farà. E con gli altri ospiti si diverte moltissimo a fare da “spalla”».

I famosi “temi sociali” (quest’anno il razzismo, la mafia, la disabilità) come vengono scelti?

«A volte casualmente. Ascoltando lo stupore, il disappunto, il dispiacere sincero di Lorena Cesarini di fronte ai commenti su internet riguardo alla sua partecipazione è venuto fuori il tema del razzismo, dell’inclusione. Chi, a quel punto, meglio di lei? E ancora con Maria Chiara Giannetta, il suo training con i ciechi per girare “Blanca” non poteva che fornire lo spunto per parlare di una diversa abilità e la sua amicizia con Maurizio Lastrico, con cui aveva lavorato in “Don Matteo”, ha fatto saltar fuori il duetto tutto costruito con i tormentoni delle canzoni d’amore, un gioco verbale di cui Lastrico è specialista. Poi, se hai come ospite uno scrittore ma anche un affabulatore del calibro di Roberto Saviano, chiaro che nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio pensi a un momento di riflessione come quello che lui ha proposto. O anche un battitore libero come Fiorello che devi lasciare a briglie sciolte o un comico con una cifra fortemente riconoscibile come Checco Zalone: in questo caso devi metterti al servizio, non puoi snaturare nulla».

Momenti del festival 2022 di cui andar fieri?

«La serata delle cover che è quella dove si toccano picchi emotivi fortissimi, per la mozione della memoria collettiva legata a questa o quell’altra canzone. Ecco, anche lo stimolo delle emozioni dev’essere sera per sera calibrato, soppesato, distribuito omogeneamente nel corso della scaletta. Ma quella sera lì, se parti inanellando Aretha Franklin, De Andrè, McCartney e Sinatra, beh, hai già ingranato la quarta. Ed è stato esaltante il numero di Cesare Cremonini, che è un artista che non va mai in tv, non puoi mica introdurlo con un “ed ecco a voi” – che ad Amadeus non piace molto – e allora ti viene in mente l’incipit della sua bellissima “Nessuno vuol essere Robin”: “Come mai sono venuto stasera? Bella domanda…”.

E da lì la performance diventa racconto».

Un momento che invece vi ha fatto tribolare, temere di non farcela?

«Non c’era stato tempo per provare il pezzo di Lino Guanciale che aveva deciso di cantare “A hard day’s night”. Lui ci ha tolto le castagne dal fuoco all’ultimo momento, durante le due precedenti pause pubblicitarie: è entrato in palcoscenico, con il pubblico in sala, si è messo in un angolino e s’è accordato con il direttore d’orchestra sulla tonalità provando in sordina il pezzo. Grande professionista».

I cantanti?

«Beh, con i grandi professionisti vai sul liscio. Ma la sorpresa più piacevole sono sempre i giovanissimi: i ragazzi hanno una bella sfrontatezza ma non sono arroganti e si fanno consigliare».

Anche la squadra d’autori è contenta degli ascolti?

«Siamo contenti soprattutto del consenso dei telespettatori che sarebbe come dire del vecchio “indice di gradimento”. Abbiamo avvertito questa adesione, quest’onda di simpatia al di là dei numeri, pure importanti».

Musica di una certa qualità, idoli evergreen e belle promesse, numeri comici azzeccati, argomenti più seri approfonditi, perfino il balletto con l’omaggio alla Carrà. Ma Sanremo resta un unicum. Perché la formula abbinata all’evento non si può estendere all’intrattenimento seriale in tv invece di vivacchiare di format ripetitivi o importati dall’estero?

«Questo è compito dell’azienda Rai, delle linee editoriali. Di quello che è arrivato dall’Ariston nelle cinque sere del festival si dovrebbe fare tesoro, spalmare lungo tutta la stagione questa idea di far spettacolo. Creare anche una factory che possa formare giovani autori. E tornare a sperimentare, riscoprire la “seconda serata” per testare nuove formule».

Già pronto a scrivere Sanremo per l’Amadeus-quater?

«Non lo so. È una bella squadra, certo, e la Rai con Lucio Presta hanno contribuito a farci lavorare tutti bene, nel metterci nelle condizioni migliori per farlo. Ma già dal rientro a Roma lavoro con Amadeus per le cinque prime serate, da sabato prossimo, di “Affari tuoi – Formato famiglia" e da marzo si penserà al cast della nuova edizione di “Arena 60/70/80” che ha avuto grande successo lo scorso anno».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 14 Febbraio 2022, 08:35
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