Shel Shapiro, il ritorno: «Sessant'anni di musica per cantarvi che "Non dipende da Dio"»

Shel Shapiro, il ritorno: «Sessant'anni di musica per cantarvi che "Non dipende da Dio"»

di Totò Rizzo

Sessant’anni di musica tra rhythm’n’blues, rock, pop, beat. «Anche se il termine beat non lo sopporto, il beat è nato come una nuova forma di scrittura, un movimento per una diversa libertà mentale. Poi è stato affibbiato come un’etichetta a quello che in realtà era rock o pop», dice Shel Shapiro, uno che la storia della musica l’ha fatta, da autore, interprete, arrangiatore, produttore nonché da leader dei leggendari The Rokes negli anni ’60. Oggi, a 77 anni, fa uscire un nuovo singolo, «Non dipende da Dio». Nella prossima primavera segue album di inediti, a quasi vent’anni dalla pubblicazione dell’ultimo.

«Non dipende da Dio», dipende dunque da noi. Non possiamo più dire «che colpa abbiamo noi»…

«Dio non ha mai colpe. Dovremmo prenderci le nostre responsabilità, piuttosto, ma oggi si gioca a scaricabarile. Forse i social hanno creato un’aria di sospetto, di paura: basta dire o scrivere qualcosa che scombussoli leggermente l’opinione comune e sei subito lapidato. Si tengono poco in conto i sentimenti, i problemi degli altri. C’è una mancanza di compassione».

Tra poco un album – dopo vent’anni fra concerti, teatro, cinema e tv – tutto di inediti.

«Torno a fare il mio mestiere, il musicista al 100%, quello che compone, arrangia, canta. Al di là di certe logiche discografiche, assecondando un’esigenza personale. Oggi la musica è fruita per lo più da un range che va dai 15 ai 45 anni, è difficile trovare spazio, anche nelle radio, per chi sembrerebbe fuori dai giochi».

Cosa c’è di cambiato rispetto a cinquant’anni fa?

«Cinquant’anni fa in Italia c’erano Claudio Villa, Gianni Morandi e i Rokes, la vecchia melodia, il pop e i complessi rock. Oggi le classificazioni sono mille e lo streaming ha stravolto il metodo di consumo. Però, guarda caso, è tornato in auge il vinile, il disco torna ad essere un oggetto fisico, un patrimonio anche materiale».

I rapper oggi sono i capelloni degli anni ’60?

«Sì, come chiunque provochi cambiamenti nella musica e nel costume. Certo, la scrittura è più estremizzata ma la forza del messaggio è quella».

«Sarà una bella società…» ci si prometteva cantando. Che raccontiamo oggi ai nostri figli, ai nostri nipoti?

«Che quella promessa fatta a noi stessi non l’abbiamo mantenuta. Abbiamo cercato ma il mondo cambia e cambiano i sogni, i pensieri, le priorità. Quello che ti riprometti a vent’anni spesso e volentieri si mitiga, si smussa, si aggiusta.

Per sopravvivere. Ma la rivoluzione non ammette mezze misure».

Buttiamo tutto, allora, dei favolosi e ribollenti Sixties?

«Ma no, teniamoci le cose belle. Per esempio l’aver tenuto lontana la violenza che avrebbe travolto alcuni qualche anno dopo».

Dica la verità: The Rokes e l’Equipe 84 erano i nostri Rolling Stones e Beatles?

«Penso proprio di sì. In fondo Stones e Beatles erano complementari e anche noi che abbiamo cambiato la musica in questo Paese. E poi i genitori si fidavano: sognavamo un mondo migliore sì, ma senza inneggiare a droghe, violenza…».

Infatti cantavate al Piper ma pure alla Bussola…

«Verissimo. Alla Bussola una sera arrivò Delia Scala, portò sua figlia che era pazza di noi».

Anche a Sanremo…

«La prima volta fu nel ’67, l’anno di Luigi (Tenco, ndr). In coppia con Lucio (Dalla, ndr) cantavamo “Bisogna saper perdere”. Allora al festival in tre minuti ti giocavi veramente la carriera, oggi è solo una grande vetrina promozionale».

Ripensa ogni tanto al ragazzo Norman David Shapiro – buona famiglia inglese, di origini russe e radici ebraiche – arrivato in Italia quasi sessant’anni fa?

«Sì che ci ripenso, con tenerezza. E se mi chiedono cosa cambierei di quello che ho fatto rispondo tutto o quasi perché nella vita si fanno milioni di errori e alcune cose giuste. Ma non è tempo di tirare le somme».

Sempre sulla breccia…

«Mi diverto ancora a provare uno spettacolo, a preparare un concerto, a sperimentarmi in esperienze inedite: mi piace la scommessa, mettersi in gioco produce energie positive in te e negli altri».

Posso dirle che «E la pioggia che va» dovrebbe essere una delle canzoni da salvare del secolo scorso?

«Colpito e affondato! È vero. Perché è la canzone per eccellenza: semplice senza essere banale. Sa che per me è la più difficile da cantare in concerto? Perché temo sempre di non trattenere l’emozione. E quando la finisco e i riflettori si abbassano, nelle prime file vedo sempre qualcuno che ha gli occhi lucidi».

E allora finiamo proprio citando «E la pioggia che va»: «…e ritorna il sereno». Tornerà anche dopo questo inaspettato brutto tempo del Covid?

«Certo che tornerà. Non faccio previsioni ma spero presto anche perché ho una gran voglia di imbracciare la chitarra sul palco. Se fossimo tutti più attenti, più rispettosi degli altri, forse usciremmo prima da questo tunnel. Ecco, vede, cosa le dicevo? Se avessimo più compassione…».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 12 Febbraio 2021, 17:26
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