Ron in tour nei teatri con 50 anni di canzoni: «Mi hanno sempre salvato la passione per la musica e la fede in Dio»

"Quando mia madre seppe che avevo dato a Dalla "Attenti al lupo" mi disse "tu sei pazzo", "La canzone italiana? E' un periodo di transizione più che di vero cambiamento".

Ron in tour nei teatri con 50 anni di canzoni: «Mi hanno sempre salvato la passione per la musica e la fede in Dio»

di Totò Rizzo

Una città per cantare, come dice una sua canzone. Ogni sera, una città diversa. Nell’anno di un compleanno tondo (il 13 agosto saranno 70) Ron si racconta in uno spettacolo di parole e musica.

Un rewind emozionale?

«È anzitutto la voglia di cantare dal vivo le canzoni del nuovo album, “Sono un figlio”. E di cantarle nei teatri, che sono luoghi che amo molto, quelli dove il mio mondo trova il suo habitat perfetto. E poi sì, è vero,  ho tanto da ricordare, da tirare in ballo di tutti questi anni, attraverso le storie, gli aneddoti, attraverso i miei brani, quelli più popolari e quelli che non faccio da tempo. E l’affetto che arriva dalla platea è incredibile».

Che pubblico è, oggi, quello di Ron?

«Ci sono quelli con cui siamo diventati grandi insieme, che mi seguono da decenni ma pure tanti ragazzi. E questo scalda il cuore».

“Sono un figlio” è una affermazione forte, specialmente in età matura. Rosalino si sente ancora figlio di Savino e Maria?

«Assolutamente. E più vado avanti, più mi ci sento:  figlio di un mondo che non c’è più, certo, ma mio padre e mia madre mi hanno permesso di essere quello che sono, assecondando le mie scelte. Non è facile trovare genitori che quando dici “voglio fare il cantante” non ti rispondano ancora oggi “ma un lavoro vero no?”. Loro non lo hanno nemmeno pensato».

Questo non l’ha mai spinta a sognarsi padre?

«Col mestiere che faccio sarei stato sempre in pensiero di non fare mai abbastanza per un figlio: i dischi, le tournée... La figlia di mia sorella mi ha appena reso prozio: esercito su questi affetti il mio istinto paterno».

Il suo primo pubblico è stato un campo di girasoli: ce ne vuoloe di fantasia...

«Avrò avuto 10 anni, vagavo per la bellissima campagna della mia terra, nel Pavese, mi trovai in questo grande campo di girasoli. File intere, enormi, sembravano le teste di un pubblico. Cantai “La fisarmonica” di Gianni Morandi. Alla fine, feci anche un inchino. Chissà, forse nelle mie orecchie sentii già un applauso».

Quelli della sua generazione sono cresciuti con i maestri di canto e i concorsi, oggi i talent e i social: che differenza c’è?

«Enorme. La tv amplifica tutto: “Amici”, “X Factor”… Per non parlare di chi arriva dalla popolarità della rete, già carico di like. Ai miei tempi si parlava di “voci nuove”, ti iscrivevi, cantavi le hit del momento sperando che tra il pubblico ci fosse un talent-scout. La sera in cui cantai io ce n’era uno della Rca. Avvicinò i miei genitori – io ero ancora minorenne – e disse che si sarebbe fatto risentire. Un mese dopo telefonò a casa. La ricordo ancora, quella sera. Castelnuovo Scrivia, in Piemonte».

E così, un sedicenne caruccio e con frangetta viene catapultato a Sanremo. Beh, “Pa’ diglielo a ma’” non era certo un capolavoro.

«Ma a me non importava. Volevo solo farmi conoscere. Sanremo era il sogno di tanti ragazzi, ieri come oggi. E ha una risonanza enorme per il tuo lavoro: lo dice uno che lo ha anche vinto, nel ’96, quando era già affermato».

Poi però nel ’71 arriva “Il gigante e la bambina” che la catapulta nella musica d’autore.

«Con tutte le polemiche che ne nacquero e la censura con cui si scontrò perché parlava di uno stupro. Mi ricordo quando Lucio (Dalla, ndr), che avevo già conosciuto alla Rca, portò la musica a Paola Pallottino che aveva scritto il testo. Paola era convinta che la dovesse fare Lucio. Invece lui: “Questa la canta Ron”. E lei: “Ma non è troppo spinta per un ragazzo di 18 anni?”. E lui: “Sì, proprio per questo”. Per me fu l’occasione di entrare in un mondo diverso”.

Però in compenso lei regalò “Piazza Grande” a Dalla.

«Eravamo sulla nave che porta da Napoli a Palermo, era agosto, dovevamo fare dei concerti in Sicilia. Ad un certo punto, per ammazzare la noia, tiro fuori la chitarra. Non avevo mai scritto un rigo musicale. Ma mi vien fuori la strofa, quella che dice “Santi che pagano il mio pranzo non ce n’é…”. Lucio stava dormendo, si sveglia e fa: “Rifalla un po’”. E lui ci mette il ritornello: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io…”».

Quante canzoni ha scritto?

«Non lo so, mai tenuto il conto. Né di quelle scritte per me, né di quelle che ho composto per gli altri, dalla Vanoni alla Mannoia. Mi piace scrivere per i miei colleghi. Forse l’unica che avrei potuto tenere per me era “Attenti al lupo”.

Quando mia madre seppe che l’avevo data a Lucio disse “tu sei pazzo”. Forse, ma è venuto fuori quel successo lì».

La canzone che ama di più?

«“Una città per cantare” che è diventata un mio successo ma che non ho scritto io perché è la cover di “The road” di Jackson Browne. Un colpo di fulmine, un’identificazione totale: erano i tempi delle lunghe tournée. La volli incidere a tutti i costi».

E una che non ama?

«Non c’è ma non perché, come dicono a Napoli, “ogni scarrafone…” ma perché mi sono sempre lasciato trascinare dall’ispirazione, non ho mai scritto una nota pensando al successo e tutto quello che ho scritto l’ho, più o meno, sempre portato in giro. Mai soccombere all’abitudine. Le case discografiche poi mi hanno lasciato abbastanza libero. Oggi, lo confesso, qualche piccolo calcolo me lo faccio ma perché con gli anni ho capito che non sempre ti arriva la grande canzone, non puoi essere baciato dalla fortuna per tutta la vita».

Gli incontri. Quelli importanti. Lucio per primo, ovviamente.

«Mio padre mi accompagna da ragazzino alla Rca, in una stanza ci sono dirigenti, funzionari, musicisti e c’è Dalla, io manco sapevo chi fosse. “Avrei una cosa per questo ragazzo”. Mi dà un nastrino e mi fa: “Imparala e poi va in sala di registrazione a cantarla”. Era “Occhi di ragazza”. Nel giro di 40 minuti la imparo, mi metto davanti al microfono e la registro. Torno in ufficio e mi dicono: “Perfetto, ti mandiamo a Sanremo”. A Sanremo, la commissione selezionatrice la bocciò».

Altri incontri belli?

«Beh, De Gregori, ancora oggi il cantautore per eccellenza, grande, fraterno amico. Venditti che agli inizi mi chiese “ma tu ne scrivi canzoni?”. Forse era interessato».

Un incontro mancato che ha lasciato rimpianto.

«Con Lucio Battisti, immenso, sommo. Mai incontrato. Quanto mi sarebbe piaciuto lavorare con lui».

La musica l’ha salvata, qualche volta?

«La musica mi ha sempre salvato, fosse anche con la canzone sbagliata. Nei momenti bui, ad esempio. C’è stato quello – erano gli anni di piombo – in cui  sembrava che si dovessero per forza scrivere canzoni politiche. C’era una specie di ostracismo per chi non si allineava. Io ho continuato scrivendo per gli altri, arrangiando dischi, ascoltando chi mi portava un provino».

Come sta messa la musica italiana?

«Credo sia un periodo di transizione più che di vero cambiamento, arrivano i giovani, impazza il rap, bisogna ascoltare tutto, sempre, essere curiosi. A Sanremo mi è molto piaciuto Olly, cantava “Polvere”, aveva una novità vera, poi ho trovato bravissimo Lazza e credo che Madame abbia una bella voce, un grande fascino, una strada spianatissima».

Il Sanremo che ha vinto. Ricordi?

«Come a volte capita, non pensavo che “Vorrei incontrarti fra cent’anni” fosse la canzone giusta per il festival. Pippo Baudo fu fondamentale. Insistette finché capitolai. Venne perfino a Garlasco, a casa mia, una sera che l’allora sua moglie, Katia Ricciarelli, aveva un concerto al Teatro Fraschini di Pavia. Solo che non trovavo l’interprete giusta con cui cantarla. Ho cominciato a fare provini su provini. Niente. Fino a che un giorno mi telefona Tosca e mi fa: “So che stai cercando una partner per Sanremo. Beh, ascolta anche me, no?”».

I ragazzi d’oggi come li vede tra social, pandemia, guerre, il pianeta malmesso?

«Quello di noi ragazzi di cinquant’anni fa era un mondo meraviglioso, abbiamo vissuto tanto, visto tanto, ringrazio il cielo d’esserci stato quando nascevano i Beatles e i Rolling Stones, la vita ci scoppiava tra le mani. Oggi i ragazzi sono soli, spaesati ma è superficiale crederli come si dipingono, disinteressati, apatici. Bisogna  motivarli, offrire loro stimoli, occasioni, lavoro».

Che cosa sogna ancora Ron?

«Intanto che finisca questo cavolo di guerra. Il Covid poi è stato un rullo compressore. Dicevamo “ne usciremo migliori”. Per niente».

Ha l’aspetto dell’eterno ragazzo a dispetto del tempo: le fa paura la vecchiaia?

«Mi sto abituando. Certo, allo specchio vedo un altro rispetto al me di ieri ma confido nella musica: finché ci sarà questa passione…».

Ha fede?

«Sì, da sempre. La mia famiglia mi ha insegnato a credere in Dio e ora più che mai sento il bisogno di questo sostegno, se non l’avessi sarebbe disastroso, se non riuscissi a pregare mi sentirei perduto».


Ultimo aggiornamento: Lunedì 20 Marzo 2023, 08:03
© RIPRODUZIONE RISERVATA