Roma, Roberto Vecchioni al Brancaccio: «Il mio concerto-teatro da San Siro a Leopardi»

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di Claudio Fabretti
 «Sarà un concerto-teatro. Non ci saranno solo canzoni. Farò monologhi, dirò sciocchezze, ma spero anche cose divertenti. Ci saranno tante immagini da commentare, molte battute. E poca politica». È un Roberto Vecchioni entusiasta, quello che incontriamo a Leggo e che si presenterà domani al pubblico del Teatro Brancaccio. «Anche perché appena sto a Roma mi sento già meglio - giura - Una città meravigliosa. E pazienza per le buche: le copriranno».
 
 


Come è strutturato il concerto?
«La prima parte sarà dedicata a L’infinito, il mio ultimo album, ispirato da Leopardi. Nella seconda toccherà ai classici».

Quali di loro non potranno mancare?
«Beh, Luci a San Siro, Samarcanda e Chiamami ancora amore non si possono non fare».

A proposito di classici: le Sardine hanno adottato la sua “Sogna ragazzo sogna”...
«Ne sono contento. È stata già una canzone di tanti movimenti democratici, perché il suo testo corrisponde a quello che i ragazzi hanno nel cuore: il desiderio di un mondo più pulito, in cui ci sia un po’ più di attenzione per gli altri. Senza tanti paroloni».

Il lavoro di professore l’ha aiutata a restare più in contatto con il pubblico giovane, rispetto ai suoi colleghi?
«Abbastanza, ma neanche tanto. Anche perché molte mie canzoni sono trasversali, per ogni età».

A proposito di colleghi, come ha fatto a convincere Guccini per il duetto?
«Mi ero messo in testa questa cosa. Così sono andato al suo paese, l’ho preso, l’ho strapazzato... E l’ho convinto. Senza neanche faticare troppo, anche perché gli è piaciuto il disco. Ti insegnerò a volare l’abbiamo registrata nella sua cucina. È stato un momento commovente, un revival degli anni 70, quando tutto era ancora possibile».

C’è un altro cantautore con cui le piacerebbe lavorare?
«Fossati, ad esempio, che ha appena fatto un grande disco con Mina. Ma amo anche De Gregori, uno che ha cambiato la lingua della nostra canzone. In generale, i cantautori italiani sono migliori della media mondiale: più colti, letterati, sensibili».

Ha anche scritto libri sul lessico dei cantautori. Come valuta quello dei cantautori/rapper attuali?
«Corrisponde ai tempi. Oggi, non c’è spazio per un romanticismo piagnone. C’è un lessico di tante parole che sommergono, di una o due idee, non di più. Purtroppo quasi tutte di rabbia. Ma sono quelle che arrivano di più ai giovani. Mi sta bene, ma vorrei che i ragazzi capissero che c’è anche qualcos’altro. Ad esempio, la poesia dei cantautori storici, da Dalla a De André».

Nel 2011 trionfò a Sanremo. Ci tornerà?
«Mai dire mai, magari a 90 anni! È un doveroso omaggio all’ascolto medio italiano, non c’è solo quello snob, privilegiato».

In quell’occasione cantò anche “‘O Surdato ‘Nnammurato”...
«Un omaggio alle mie radici, i miei genitori sono di Napoli. E la canzone napoletana è un caposaldo della nostra musica: la adoro».

La sua Milano, invece, com’è cambiata rispetto alla città che raccontava in “Luci a San Siro” e tanti altri brani?
«Se n’è andato un po’ di decadentismo, di nebbia, di tristezza. Oggi è una città solare, moderna, europea. È bella, leonardesca, e verde, con tanti giardini interni nei palazzi».

Tornando al Festival, Marino Bartoletti, che ha appena pubblicato il suo Almanacco, sostiene che la sua “Sugli sugli bane bane”, scritta nel 1973 per Le Figlie del Vento, è la canzone sanremese più brutta di sempre.
«(ride, ndr). Era totalmente demenziale, in effetti, puro nonsense. Ma era carina come melodia».

La rivalutiamo?
«Perché no!».
Ultimo aggiornamento: Martedì 10 Dicembre 2019, 08:31
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