Nino D'Angelo si fa in tre: libro, disco e nuovo tour. «Ritorno un ragazzino delle medie»

Nino D'Angelo si fa in tre: libro, disco e nuovo tour. «Ritorno un ragazzino delle medie»

di Totò Rizzo

«Sono sempre stato figlio del pregiudizio». Però, uno alla volta, i pregiudizi li ha buttati tutti giù, Nino D’Angelo, tra musica, teatro, cinema. E ora eccolo qui, a 63 anni, con un nuovo progetto: disco, libro e tour (debutto il 4 novembre a Milano agli Arcimboldi, il 20 a Roma alla Conciliazione, il 26 a Napoli al Palapartenope). Uniti dallo stesso titolo: “Il poeta che non sa parlare”. Il copyright è della professoressa Vitale, insegnante di italiano di Nino alle medie.

D’Angelo, come andò?

«La Vitale convocò i miei genitori, prese i miei temi e disse: “Guardate qua: comm’àggia fa’ cu ‘stu guagliune? Ha una sensibilità straordinaria ma è come un poeta che non sa parlare”».

Dopo, però, così male non è andata…

«Perché sono rimasto umile e ho raccontato le cose che conoscevo, mica il Vomero alto. Cantavo i sogni, le speranze, le amarezze di un ragazzo che era il primo di sei figli di una famiglia di San Pietro a Patierno. Attraverso l’amore e il dolore: quei sentimenti non sono classisti».

Qualcuno dice «il capostipite dei neomelodici».

«E si sbaglia, di grosso. I neomelodici sono un fenomeno degli anni Novanta. Io avevo già dieci anni di successo alle spalle e cantavo cose più sdolcinate: un cuore spezzato, la nostalgia di un ragazzo emigrato. Non ho mai cantato la malavita, semmai gli errori in cui poteva cadere chi sceglieva quella strada».

Dicevano: D’Angelo l’erede di Mario Merola nella sceneggiata.

«Grande scuola, quella, in scena e sul set. Mi ha insegnato tanto. Mi sento onorato di quella eredità».

Da «Pronto mammà» al teatro di Raffaele Viviani.

«Anche lì, quanti pregiudizi quando mi sono accostato al repertorio. “L’ultimo scugnizzo”, “Zingari”, “Guapp’e cartone”. Ma si sono ricreduti: mai avuto recensioni così belle, anche dai critici più severi».

Sanremo. Di festival, in gara, lei ne ha fatti cinque. Il primo nell’86 la sdoganò verso il consenso nazionale.

«Ero ospite a “Domenica in” da Baudo. Pippo mi disse: ti faccio conoscere Gianni Ravera. E lui: lo vorresti fare Sanremo? Però, per favore, almeno un paio di versi scrivili in italiano. E nacque “Vai”».

Fu Sanremo stesso, nel ’99, a rappresentare la svolta. «Senza giacca e cravatta» ha segnato un’evoluzione della sua musica.

«Voi la chiamate evoluzione, io più semplicemente lo chiamo cambiamento. Ma era da tempo che sperimentavo una scrittura diversa, cercavo una nuova ispirazione. È accaduto dopo la morte di mia madre. Sono entrato in depressione. Quando mi sono ripreso cercavo nuovi stimoli, anche in arte. Così ho deciso di autoprodurmi. Mi sono sentito più libero, ero cresciuto, non ero più il ragazzo col caschetto biondo. Che non rinnego affatto però».

E sono arrivati anche incontri inattesi.

«Chi se le sarebbe mai immaginate quelle collaborazioni importanti? Peter Gabriel, Billy Preston…».

Al festival c’è tornato due anni fa per accompagnare Livio Cori, scena hip hop e rap partenopea. Che ne pensa della musica che da tempo fa scuola nella sua città?

«Il napoletano è una lingua che si presta molto a quella metrica. Certo, ogni tanto i rapper sono troppo realisti, troppo crudi. Ma non sono i temi a fare la differenza. È la scrittura che fa la differenza, la qualità dei testi. Sbagliato pensare che chiunque può fa’ ’o rapper».

Adesso lei si fa in tre: libro, disco e tour. Cos’è, un bilancio?

«Ho 63 anni, 45 di carriera. Ho pensato: perché non raccontarmi, com’ero, come sono, con la sincerità che ho sempre avuto nei confronti del pubblico? Ho camminato tanto e non sempre sono stati sciure e rose…».

Però, pregiudizi a parte, qualche soddisfazione se l’è tolta.

«Antonio Bassolino, che è stato il miglior sindaco di Napoli negli ultimi decenni, mi affidò il rilancio del Teatro Trianon nel cuore di Forcella, la direzione artistica della Festa di Piedigrotta dove ho portato musicisti di diverse estrazioni.

E poi vado fiero del David di Donatello per la colonna sonora di “Tano da morire”, del Flaiano come attore non protagonista per “Il cuore altrove” di Pupi Avati».

E i 60 mila al San Paolo per i suoi 60 anni?

«Già, quella sera chi sa pò scurda’?».

A parte questo triplice progetto, c’è un sogno da realizzare ancora?

«In teatro il sogno di ogni artista napoletano è recitare Eduardo ma lì ci vorrebbe un grande regista. Grande. In teatro ho dimostrato d’essere bravo, direbbe la professoressa Vitale. Al cinema non ho ancora fatto il salto da bravino a bravo. Ecco, quello mi piacerebbe assai».

Peccato non abbia lavorato con Miles Davis, suo grande ammiratore.

«Già. Leggenda vuole che a metà anni ’80 a Palermo ascoltò le mie canzoni su un taxi che lo portava dall’aeroporto in città e si fece accompagnare alla Vucciria a comprare le musicassette pirata, le stesse che vendeva mio padre agli inizi della mia carriera. Quando il mio bassista mi disse “lo sai che Miles Davis è un tuo fan?”, gli risposi “chi è, il nuovo acquisto del Napoli?”».

In una delle canzoni del nuovo disco, “Maletiempo”, che parla di migranti, canta “ce vò Dio e ce vò Allah”. Chi ci salverà dalla pandemia?

«Sa come dice il proverbio? Aiutati che Dio ti aiuta. Né Dio né Allah potranno aiutarci se non siamo uniti. ’A nuttàta, per citare Eduardo, può passare solo se noi stessi riusciamo a fare un po’ di luce. Ma ha visto che spettacolo ha dato la politica in questi ultimi mesi? E siamo già a centomila morti. E di fronte a centomila morti, chille so’ pagliacciate».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 10 Marzo 2021, 16:11
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