Niccolò Fabi per orchestra: «Un disco nato da un concerto»

Niccolò Fabi per orchestra: «Un disco nato da un concerto»

di Valerio Di Marco

“Meno Per Meno” fa più. Segno positivo. Niccolò Fabi guarda con rinnovato piglio al futuro ma lo fa anche voltandosi indietro. Il suo ultimo album, pubblicato lo scorso dicembre, è per il sessanta per cento (6 tracce su 10) composto da suoi brani già noti e per il restante quaranta da inediti. Il tutto con arrangiamenti classici scaturiti della collaborazione con il maestro Enrico Melozzi e la sua Orchestra Notturna Clandestina. La dodicesima fatica in studio del cantautore romano, da lui presentata ieri sera all’Officina Pasolini in zona Farnesina, prende le mosse dal concerto-evento tenuto dall'artista lo scorso 2 ottobre all’Arena di Verona, quando ad affiancarlo sul palco c’era lo stesso ensemble diretto da Melozzi. Un disco nato da un concerto e non il contrario, come avviene di solito. «La collaborazione con Enrico si è estesa anche in studio - ha raccontato Fabi -. Gli ho consegnato i brani spogliati in versione acustica per agevolarlo nell’adattamento classico, per poi riprenderli di nuovo in mano io e aggiungervi gli elementi finali, tra cui un po’ di elettronica». Dunque un lavoro di sottrazione seguito da addizione. Non è stata facile la scelta dei pezzi vecchi da riarrangiare. «Molte mie canzoni si prestano alla veste orchestrale ma in ogni caso il progetto non è un’antologia del meglio che ho realizzato». Fabi ha conosciuto Melozzi dieci anni fa ma solo adesso tra i due è nata una collaborazione. «Mi aveva colpito la sua esuberanza unita all’attenzione a certi dettagli contenuti tra le righe, ma finora non avevo mai pensato che l’orchestra potesse essere un accompagnamento per me».

Tra i brani ripescati figura “Una Buona Idea”, in precedenza già ripubblicato in versione alternativa da Fabi. «Un pezzo angolare per me, uno dei pochi miei in cui le persone ai concerti ridono durante il ritornello perché cantabile». In ogni caso lui rivendica il suo ruolo di musicista prima che di paroliere. «Il grosso del mio lavoro è dedicato alla parte musicale, ai suoni dei vari strumenti, è strano che quando si parla di cantautori si guardi quasi solo ai testi». Un lavoro che Fabi fa da venticinque anni, festeggiati appunto nella città scaligera, una serata importante per lui anche perché l’unica data live dello scorso anno e la prima senza restrizioni, dopo la pandemia. Tuttavia quello dei grandi spazi è un contesto che Niccolò non reputa la sua dimensione naturale, infatti da metà aprile lo ritroveremo in tour nei teatri, ancora in veste sinfonica. «Ho sempre amato più il minimo che il massimo, sono più a mio agio in situazioni intime perché penso che la mia musica si presti maggiormente a un tipo di ascolto privato. Considero quell’esperienza veronese davanti a un pubblico così numeroso come una somma di ascolti privati e non un rito collettivo. Le mie canzoni sono per certi versi omeopatiche e per me il valore di quella serata è stato vedere che hanno significato qualcosa per l’intimo di ognuna di quelle persone». Un momento che peraltro lui ha rivelato di non essersi gustato appieno. «Ho avuto un problema tecnico enorme e nella seconda parte dell’esibizione ho dovuto concentrarmi principalmente su quello. A volte il backstage è diverso da ciò che si vede da fuori. Ma forse è salutare non eccedere nel godimento, si vede che è così che deve andare nel mio caso, e magari qualche volta qualche piccola macchia può aiutarmi a non farmi sentire appagato». Quella performance quindi non diventerà un album dal vivo? «Preferisco che rimanga un qualcosa per chi c’era, se lo vedi a casa non fa lo stesso effetto. Oggi siamo abituati a guardare le cose in televisione sapendo di poter premere stop in qualsiasi momento, ma un concerto non può essere qualcosa che fermi e fai ripartire quando vuoi, non deve essere solo tuo. Magari uscirà in una forma diversa, ci stiamo pensando».

Un quarto di secolo di attività discografica è un bel pezzo di vita.

Come si rapporta col tempo che passa? «Essendo un artista e facendo una vita piuttosto solitaria, sento molto il battito dei secondi. Ho una predisposizione apocalittica a considerare ogni giorno come il possibile ultimo per me». Sente ancora l’urgenza espressiva? «C'è sempre un qualcosa che spinge noi artisti, sia esso la vanità, il coraggio oppure l'incoscienza. O magari tutte e tre le cose insieme. Viviamo le esperienze e le sensazioni in modo diverso dagli altri, cercando di farle restare vive, di non darle per scontate. Lustriamo continuamente le nostre piccole caraffe e la nostra è una sfida perenne al panno con cui togliamo la polvere».


Ultimo aggiornamento: Mercoledì 18 Gennaio 2023, 11:26
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