Gegè Telesforo: «Che passione per Chet Baker e Sinatra, ma fare jazz in Italia è difficile»
di Rita Vecchio
Una vita dedicata alla musica. Non si è mai stancato?
«Se fai una cosa che ami, è impossibile. Il jazz è per chi si innamora del suo stile. E io me ne sono innamorato. Certo, fare musica è difficile, e fare jazz in un Paese come il nostro lo è ancora di più. Oggi, poi, si pensa quasi solo all'intrattenimento».
È la dittatura del mercato e delle vendite?
«Per alcuni, sì. Non per me. Alcune radio, per esempio, selezionano musica in base a fascia oraria, tipo di pubblico e pubblicità. Io ragiono in altro modo - no musica da classifica, no musica da spiaggia - e i miei programmi vanno bene lo stesso. Certo, la formula perfetta sarebbe una sintesi di bravura e intrattenimento».
Quando ha deciso di fare il musicista?
«Con una telefonata a mia madre che ricordo ancora. Avrò avuto 19 anni e frequentavo Economia e Commercio a Roma. Tornando a casa da un concerto, feci un incidente con la sua Fiat 126 gialla. La chiamai e le dissi che avrei smesso di andare all'università perché troppo pericolosa per un musicista jazz».
La sua risposta?
«Non ha risposto. I miei genitori, dalla mentalità di un tempo anche se aperta all'arte, sono sempre stati preoccupati per me, perché non avevo il famoso posto fisso, nonostante fossero fieri di me».
Anche perché lei ha vissuto in una casa piena di musica, se non sbaglio.
«Non sbaglia. Sono cresciuto in una casa in cui la colonna sonora erano Chet Baker, Duke Ellington, Frank Sinatra e tutti i grandi del jazz fino agli anni 50 e 60».
Così dall'ascolto, è passato al fare.
«A strimpellare gli strumenti che avevo, a improvvisare con la voce, con quello che si chiama scat. Da lì, ho iniziato a uscire dalla mia cameretta e a girare il mondo».
E a duettare con dei miti. Tipo Dee Dee Bridgewater.
«Rimasi folgorato dalla sua bravura e dalla sua bellezza. Ancora ora abbiamo un rapporto di amicizia speciale. Un giorno mi venne a trovare in trasmissione e le feci una sorpresa: le presentai Miles Davis».
E lei?
«Ricambiò qualche anno dopo presentandomi Ray Charles. Niente male no?».
La sua prima volta in pubblico?
«A parte i concertini con le band locali a Foggia, a segnarmi per sempre fu quando il grande chitarrista Franco Cerri mi invitò a suonare con lui e con il bassista Julius Farmer in una specie di raduno di appassionati jazz. Avrò avuto quindici anni. Ed è stato un sogno».
Poi l'incontro con Renzo Arbore.
«Già quello strano personaggio (ride, ndr) a cui mi legano stima, affetto e grande amicizia. L'ho conosciuto a Foggia e mi ritrovai a suonare la batteria a casa sua. Il maestro Mazza mi scelse e iniziò la collaborazione sia in tv che con l'Orchestra italiana, che ho abbandonato qualche anno fa per crescere mia figlia».
Che tipo di genitore è?
«Uno non giovanissimo che cerca di inculcare dei valori in un mondo non sicuro. Joana è un'adolescente di 14 anni, bravissima a scuola, con la passione per la musica e che ha studiato pianoforte. E che ora comincia ad andare da sola ai concerti».
Ascolta con lei rap e trap?
«Ascolto di tutto. Essere produttore di programmi di musica ti porta a restare perennemente aggiornato. Dalle variazioni Goldberg a John Coltrane, dal r 'n b all'elettronica. Anche rap e trap. Ci sono dei bei talenti, vedi Calcutta, Frah Quintale, Gazzelle, Ainè, mio nipote».
Lei ha anche collaborato con Baglioni. Che pensa del festival?
«Ha fatto un lavoro egregio, gli ascolti lo hanno premiato».
Lo farebbe?
«Potrebbe divertimi l'idea. Ma non me lo farebbero mai fare, sono troppo controcorrente. Troppo estremo (ride, ndr)».
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Ultimo aggiornamento: Mercoledì 26 Giugno 2019, 13:32
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