Battiato senza confini, dalle canzoni all'opera lirica: estro creativo e cuore profondo per un volto nuovo della cultura

Battiato senza confini, dalle canzoni all'opera lirica: estro creativo e cuore profondo per un volto nuovo della cultura

di Totò Rizzo

Perché era un essere speciale, Franco Battiato: con le sue ubbie, d’accordo, le sue passeggere tenebrosità, la sua riservatezza così lontana dallo showbiz, le sue scelte ogni volta diverse e perciò spiazzanti o addirittura scomode, il suo rifuggire ad ogni casella che potesse classificare, codificare, etichettare creatività e curiosità del momento, la sua gentile ritrosia ai meccanismi – se non quelli essenziali – della comunicazione. Fuori moda, sempre. Controcorrente, sempre. I sentimenti che sopravanzavano la cronaca se non quando i temi stessi della cronaca tracimavano nello sdegno personale e civile (si pensi a “Povera patria”). Sperimentatore colto e disincantato, dall’opera lirica al cinema, fino a una disinvolta spensieratezza, quando cadeva ogni barriera di pudore e prendeva in giro gli intellettualismi, uno sberleffo al quale si concedeva pure, a dispetto di quell’aria da guru, anche nel privato.

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Il suo ultimo regalo è di due anni fa, si intitola “Torneremo ancora”, unico inedito di un’antologia che raccoglieva le sue canzoni famose, che volle fosse pubblicato anche in doppio vinile, quasi un omaggio ai suoi amatissimi anni ’60 e ’70. Lui, accompagnato dalla Royal Philarmonic Concert Orchestra, un video che lo mostra al pianoforte con l’arrangiatore e poi svela scorci della sua casa di Milo, sulle pendici dell’Etna, la dimora campestre dalla quale si può scorgere la costa e, quando il cielo è terso, lo sguardo si stende fino alla sua città natale, Riposto. Una voce, quella dell’ultima incisione, che come sempre sembrava arrivare da dimensioni lontane, (stavolta cercando di superare le correnti gravitazionali delle ottave con un umanissimo affanno), una tensione quasi sovrannaturale verso un’«assenza di tempo e di spazio», una «trasmigrazione delle anime verso la purificazione, il loro percorso al termine della vita terrena verso cieli nuovi e terre nuove», come spiegò il fido Juri Camisasca.

Come sempre veggente, il maestro siciliano, e non certo soltanto perché fiaccato, stavolta, dalla lunga malattia che solo ieri gli ha dato tregua. Forse con il tempo potremo capire non soltanto quanto poliedrico sia stato l’estro di Battiato musicista, quanto benedetta quella sua onnivora curiosità che spaziava attraverso le epoche e i generi, tra studio e sperimentazione, ma anche quanta impronta abbia lasciato nella stessa cultura di quest’ultimo mezzo secolo, e non solo nella cultura musicale. Nella Milano degli anni ’60, quella in cui arrivò dall’Isola, frequentò i musicisti dell’accademia e quelli della sperimentazione, ma non disdegnò nemmeno il pop travestito da beat, capì subito che non c’erano barriere, limiti, confini, fu la Ricordi ad investire per prima su quel già multiforme talento allora trentenne, fino a che arrivò l’occhio lungo della Emi che lo portò fino a “La voce del padrone” (un milione e passa di copie e una popolarità che gli aprì le porte del mercato europeo, dalla Germania all’Olanda, dalla Francia alla Spagna), ricerca di nuovi suoni, di nuove strumentazioni.

Ed ancora le contaminazioni multietniche, le danze dervisci e l’elettronica, la tecnologia e le tanto citate cavigliere del kathakali.

La curiosità non si arresta e spazia nel teatro musicale (“Genesi” al Regio di Parma e “Gilgamesh” all’Opera di Rona) e anche in quelle occasioni è un osanna. E nei suoi concerti si propone indifferentemente con band di meticciato sonoro, con quartetti d’archi o con orchestre sinfoniche. Nonostante il melting pot creativo ed espressivo, non disdegna la “canzonetta” e Giusto Pio, violinista classico ma anche lui ricercatore curioso, è il complice ideale. Insieme vincono un Festival di Sanremo per voce di Alice (“Per Elisa”). Nella spassionata ricerca affronta pure la liederistica europea ottocentesca e cos’altro sono se non due lied di struggente bellezza “Povera patria” (sortita dopo le stragi mafiose del ’92) e “La cura”? Tour si sussegue a tour e sono bagni di folla nei teatri, negli ultimi decenni a fianco del filosofo-poeta Manlio Sgalambro (anche se quest’ultimo viene spesso vissuto dai fan della prima ora più come una zavorra intellettuale che come un partner ideale). È con Sgalambro che scopre – o meglio riscopre – alcuni tesori della canzone italiana d’autore e, da De Andrè ad Endrigo, a tanti altri ancora, nascono gli imperdibili volumi di “Fleurs”, rielaborazioni affettuose, perfino appassionate: non sono un omaggio tout court, sono un memento affinché quella cultura non si disperda. E anche il cinema lo tenta, tre film magari “di nicchia” ma uno dei quali, “Perduto amor”, lo porta, a 60 anni, a vincere il Nastro d’argento come miglior regista esordiente.

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La fine è nota. Negli ultimi anni, il ritorno in Sicilia, il buen retiro nella casa di Milo, la recente malattia sui cui si è forse incautamente sproloquiato, i fans ammutoliti per l’assenza ma sempre adoranti fino ad organizzare pellegrinaggi alle pendici di quel vulcano che i catanesi chiamano “’a muntàgna”. Un legame che non è mai stato solo tra artista e ammiratori, che non ha mai osservato i canoni del rapporto divistico: Battiato è stato di più anche in questo confronto con i suoi fedelissimi che in lui hanno sempre visto, soprattutto, un libero pensatore “con uso” di musica e spettacolo.


Ultimo aggiornamento: Martedì 18 Maggio 2021, 11:15
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