Franco Battiato, un nomade intellettuale affamato di musica
di Totò Rizzo
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Musicalmente famelico. Sperimentatore da sempre, Milano metà anni Sessanta. Musicisti classici soffocati dall’accademia o gruppi d’avanguardia pura le sue frequentazioni. Con la Ricordi e a 30 anni ha già il primo album intitolato col suo nome (niente talent allora), poi arriva la Emi e fino a La voce del padrone (un milione di copie) è ancora ricerca di nuovi suoni, di inedito non-verseggiare. Scopre la musica di altre terre e ne contamina la sua (etnico non si usa ancora), fa una capatina nell’opera al Regio di Parma con Genesi e all’Opera di Roma con Gilgamesh e anche in quel campo da noi intoccabile è effetto Re Mida.
Nelle more vince (o meglio fa vincere, ad Alice) un Festival di Sanremo scrivendo Per Elisa con Giusto Pio. Si cimenta con il lied ottocentesco in Come un cammello in una grondaia e gli vien fuori Povera Patria che è una sorta di lied moderno, mentre dopo Café de la Paix sforna La cura (nel nuovo album L’imboscata): diciamolo, due capolavori. Siccome ogni confine è un limite, fa pure il cinema, dirige tre film e a sessant’anni è miglior regista esordiente ai Nastri d’Argento. Fa “ditta” col filosofo-poeta Manlio Sgalambro, presenza a volte stimolante, altre ingombrante. Omaggia la musica italiana degli anni Sessanta in Fleurs, recuperando la memoria senza timori devozionali. Tutto questo per tacere dei tour nei teatri, nei palasport, delle orchestre irachene e degli ensemble tedeschi… E delle cavigliere del kathakali.
Ultimo aggiornamento: Mercoledì 16 Ottobre 2019, 08:05
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