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Francesco De Gregori, 20 date al Teatro Garbatella: «Ora posso rischiare, non mi fischiano più»
di Claudio Fabretti
ROMA - «Questi concerti sono una scommessa. Lavoriamo sottopagati, ma mi piace suonare e provocare qualcosa che non è nell’aria. E soprattutto mi diverto». Il Principe torna a casa. Nella sua Roma, con 20 date, da ieri fino al 27 marzo. Dallo sgabello rosso del Folkstudio al piccolo palco del Teatro Garbatella (230 posti): in mezzo, quasi cinquant’anni di canzoni, entrate nell’immaginario nazionale. Come Viva l’Italia, che ha aperto le prove finali del concerto. «L’avevo ripudiata - racconta ai giornalisti sorseggiando un calice di vino bianco - invece ora ne sono fiero. È un modo di rivendicare un sentimento di amore e di speranza per questo paese e credo che anche per il mio pubblico sia diventata questo». E che a seguirla sia una cover di Ma che razza de città di Gianni Nebbiosi (ritratto impietoso di Roma, scritto negli anni 70 ma attuale come non mai) non è casuale: «Se faccio una scaletta che inizia così un motivo ci sarà», risponde secco, chiudendo il sipario su qualsiasi argomento politico. Anche se poi è lui stesso a stuzzicare la curiosità, quando in Via della povertà (la sua versione in italiano di Desolation Row di Bob Dylan), le «cartoline dell’impiccagione» sono diventate «cartoline del Ku Kux Klan».
Francesco De Gregori si sente a casa davvero, in questa ambientazione un po’ vintage, con un registratore a bobine Revox posto alle spalle dei musicisti: «Al Folkstudio mi esibivo anche davanti a 15 persone e Cesaroni mi pagava 500 lire per attirare la gente suonando fuori dal locale. Ho sentito il richiamo della foresta e ho voluto ritrovare quel senso di intimità, chiedendo anche al pubblico di non registrare o filmare nulla». Off the record, appunto. «Come la frase sulla lapide di Keats: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”. Ecco, questi concerti sono scritti sull’acqua».
Nelle scalette mutanti delle serate (ogni sera ne cambierà un quarto) troveranno spazio pezzi meno noti e chicche assortite. Nell’ultima prova, ad esempio, hanno fatto capolino San Lorenzo, A Pa’, Stelutis Alpinis, Cercando un altro Egitto. Nella prima serata sono state ripescate anche Banana Republic e In onda. «Un concerto in un teatro da 230 posti ha senso perché forse queste canzoni vanno ascoltate in 230 - osserva - Vale la pena rischiare, tanto alla mia età e con la mia carriera, ormai non mi fischia più nessuno. Sarà un po’ un Hellzapoppin, in cui succederà di tutto». E non mancheranno all’appello le canzoni più scomode, dedicate a temi storici e politici: «Ci sono momenti di gravità - riconosce De Gregori - Nel senso che non parliamo sempre di noccioline. Mi sembra sia giusto che la canzone non si occupi sempre di noccioline. Ma non vorrei sembrare presuntuoso, è solo il mio modo di vedere la musica». Un modo diverso da quello di Bruce Springsteen - tiene a precisare - malgrado le analogie con la residency che il Boss ha tenuto tra il 2017 e il 2018 a Broadway, New York. «Springsteen mi perseguita. Non l’ho copiato. E poi nessuno è andato a dire a lui che Born In The Usa è uscita dopo la mia Viva l’Italia», ironizza.
Il suo, del resto, è sempre più un Never Ending Tour sul modello di mastro Dylan: «Ormai l’attività live per me è preponderante. Anche perché i dischi non hanno più molto senso. Le case discografiche mi chiedono solo greatest hits. E se avessi dieci canzoni nuove, faticherei a farle pubblicare in un album, forse preferirei cantarle tutte in un concerto». I suoi evergreen invece - da Rimmel a Generale e La leva calcistica della classe ‘68 - continuano a cambiare pelle, come sempre: «Le canzoni per me non sono oggetti da museo - ribadisce - Se qualcuno vuole vedere la fotocopia del 1975, non venisse. A me piace cambiare. E rispetto il pubblico al punto tale che non voglio che nessuno si aspetti niente da me». Lui, invece, ha perso ogni aspettativa nei confronti delle radio: «Le mie canzoni non le trasmettono più». E se passasse la legge sulle quote italiane, proposta dalla Lega e appoggiata dal presidente della Siae, Mogol? «Mi sembra una stronzata - taglia corto senza pietà - Cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi potuto ascoltare tanti artisti stranieri? Sarei favorevole al 33,3%... di miei pezzi!».
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