Danilo Rea: «Io e il mio pianoforte: così l'opera lirica si dà la mano col jazz». L'esperimento al battesimo in Sicilia

Danilo Rea: «Io e il mio pianoforte: così l'opera lirica si dà la mano col jazz». L'esperimento al battesimo in Sicilia

di Totò Rizzo

Quante ne ha viste il pianoforte di Danilo Rea: il jazz, sua vocazione naturale, ma anche il pop con i grandi interpreti della musica leggera, il prog delle band degli anni Settanta, la musica cosiddetta seria avvalendosi di grandi orchestre per i compositori del sinfonismo. Ha frequentato anche la lirica ma non l’aveva mai suonata come la suonerà questa estate, improvvisando sulle voci (e sulle immagini) dei famosi interpreti del passato remoto e recente, da Caruso alla Callas, da Gigli a Del Monaco, a Pavarotti. Si intitola “La grande opera in jazz” e vedrà il debutto in Sicilia: prima assoluta al Teatro Antico di Taormina il 16 luglio per il Bellini International Context e il 21 al neonato Between Jazz Festival di Piazza Armerina ideato da Roberto Grossi che con Stefano Mastruzzi è stato una delle menti della singolare proposta jazz-operistica.

Rea, jazz e lirica sembrano così distanti…

«E invece no. Pensi a Puccini. La prima volta che ho fatto incontrare i due generi è stato proprio con Puccini, modernissimo, un boccone ghiotto, anche dal punto di vista armonico e melodico, per la trasposizione jazzistica. Stavolta però abbiamo fatto un passo più lungo, abbiamo alzato l’asticella, la posta della scommessa: le grandi voci che dialogano con il mio pianoforte, entrano ed escono sulla mie improvvisazioni. Con una rosa di compositori italiani – da Rossini a Bellini, da Verdi a Mascagni, all’amatissimo Puccini per l’appunto – e di grandi voci del nostro Paese. Ripescando vecchi nastri, filmati, dischi a 78 giri. E il mio pianoforte che fa lo slalom tra gli uni e gli altri».

Tra quelle scelte per questa serata, quale grande voce è più vicina al mood del jazz?

«Certamente quella di Enrico Caruso perché intanto è stato pop anche quand’era un divo del belcanto. Pensi a tutto il repertorio classico di canzoni napoletane che interpretò e incise.

Ma al di là della tecnica e dell’emissione vocale, senti proprio come un’empatia, un feeling tra quella voce, il tuo orecchio e la tua anima».

E il più jazz tra i compositori d’opera?

«Mi ripeto: Puccini. Oggi sarebbe stato un acclamato autore di colonne sonore cinematografiche. Ma anche in Verdi si possono scovare certe dinamiche nascoste, senza considerare quello che ha rappresentato per l’uso della vocalità e come uomo di teatro».

La sua prima opera lirica da spettatore.

«“Tosca” con mamma all’Opera di Roma. Non mi appassionò granché nonostante fossi un ragazzino che studiava al Conservatorio. Si vede che ero già portato per tempi più stretti, più stringati di quelli dell’opera. E poi ho cantato l’opera anche da corista».

Da corista?

«Sì, fui scelto, in una selezione fatta non so più per quale occasione nelle scuole, insieme ad altri mille bambini da tutta Italia per il Coro del “Nabucco” di Verdi. Sembra un segno del destino ma il mio primo palcoscenico fu proprio quello del Teatro dell’Opera di Roma. Poi replicammo a Palazzo Vecchio a Firenze».

Ecco, i tempi stretti del jazz, ne ha parlato lei. Come si improvvisa jazzisticamente su temi musicali come quelli della lirica?

«Quelli tra i generi musicali sono confini labili. Chet Baker, con il quale ho avuto il privilegio di suonare, improvvisava quasi architettonicamente sulle armonie, andava al di là dei 24 accordi che, ripetendosi sempre, formano la struttura del jazz. Avrebbe potuto tradurre in jazz tutto o quasi. È una bella sfida sa? Faccia partire “E lucean le stelle” e ascolti un po’ cosa si può improvvisare».


Ultimo aggiornamento: Giovedì 14 Luglio 2022, 16:03
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