Coez e il nuovo disco “È sempre bello”: «La mia vita più serena, lontana dall'odio dei social»

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di Claudio Fabretti
Ora che il casino l’ha fatto davvero - tra il doppio disco di platino, i palasport sold out e i 33mila spettatori a Rock in Roma - Coez ha cambiato umore. Al punto da intitolare il nuovo album È sempre bello. «Un disco più rilassato, in cui c’è più sole e il lato crepuscolare si è affievolito. Anche se la malinconia di fondo resta», precisa il cantautore, emergendo dallo studio-bunker romano dove si è rinchiuso durante la lavorazione. Il disco (Carosello Records) esce oggi. A un anno e mezzo dal boom di Faccio un casino. A 10 anni dal debutto. Anche per questo, Silvano Albanese - salernitano di nascita, romano d’adozione - ha voluto celebrarne l’uscita con una campagna ad effetto: una raffica di manifesti misteriosi con le frasi delle canzoni a tappezzare le strade di Roma e Milano.

Coez, il nuovo disco "È sempre bello”: un mix in chiaroscuro, tra mazzi di fiori e coltelli​

Un omaggio al suo passato di writer?
«In un certo senso sì. Mi ha ricordato quando riempivo i muri con i miei graffiti o facevo attacchinaggio per strada, di notte. C’è un legame con quella Roma underground».

I suoni, però, sono più pop. Non c’è il rischio che qualche fan della prim’ora storca il naso?
«È un processo che va avanti ormai da tempo. La mia musica ora è più diretta e immediata. Sono partito dal rap, dove in una strofa c’erano più versi che in un’intera canzone tradizionale. Ora cerco di asciugare e anche di fare un lavoro più omogeneo a livello di sound».

Ad esempio in sede di produzione?
«Sì, prima mi affidavo a 7-8 producer, ora ho voluto puntare su Niccolò Contessa (I Cani) che produce tutti i brani e ha scritto molte delle musiche. M’ha cucito proprio un bel vestito».

Musicalmente cosa è cambiato?
«C’è una voglia di riprendere in mano le chitarre, di ricercare una commistione di stili diversi, dal drum’n’bass a ritmo e voce. In questo periodo sono in fissa con King Krule, mi piace proprio il suo eclettismo. Ma volevo anche rispolverare certi synth anni 80».

E poi c’è l’ombra di Vasco. Ad esempio in “Domenica”, che sembra ricordare un po’ il Rossi degli anni 80 quando cantava “t’immagini se fosse sempre domenica”...
«Beh, io sono un superfan di Vasco. Lo trovo strepitoso anzitutto come cantante, ha un’estensione vocale pazzesca. E poi è il primo rocker italiano. In fondo siamo tutti figli di quella musica lì, anche se io ho un po’ di rap in mezzo».

In “Catene”, invece, affronta il tema dell’odio da social
«Mi avevano colpito in particolare i commenti terribili su Stefano Cucchi. Prima ognuno poteva dire la sua, ora sembra che per forza ognuno deve dire la sua. Gli istinti peggiori diventano pubblici».

È per questo che ha staccato con i social?
«Sì, sono sparito da Instagram e Facebook. Fatico ormai a restare anche in contatto con i fan. C’è troppa gente che usa male il web, spesso sono proprio le persone più grandi, ad esempio i rapper che approfittano dei conflitti sui social per farsi pubblicità».

Sono cambiati tanto questi rapper, rispetto ai suoi esordi?
«Quando avevo 16 anni, il rap era diverso, era più politico, più duro. Poi si è ammorbidito, anche se spesso non nei testi».

A proposito, che ne pensa della polemica sulla droga nei versi delle canzoni?
«Non ha senso. La droga esiste ed è normale che entri nelle canzoni. In passato, ad esempio, io ho affrontato il tema della dipendenza».

Le ha fatto impressione trovarsi di fronte i 33mila di Rock in Roma?
«È stata un’emozione forte, il record per un’artista italiano. Ma sono riuscito a conservare la serenità: il pomeriggio prima del concerto ho dormito fino alle 17.30!».

Le piacerebbe lavorare in tv?
«Non sono un personaggio televisivo, mi sento a disagio. E non potrei mai fare il giudice a un talent. Non mi piace l’idea di mettersi a fare i maestrini in quattro con un ragazzino».

C’è un altro mestiere in cui si vedrebbe in futuro?
«Quello di produttore. Mi piacerebbe creare un format tutto mio».
Ultimo aggiornamento: Sabato 6 Aprile 2019, 16:41
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