Carlo Massarini: «Sui mattoni di quel muro, un incubo collettivo»

Carlo Massarini: «Sui mattoni di quel muro, un incubo collettivo»

di Claudio Fabretti
Carlo Massarini, che cosa rappresentava quel muro allora e cosa rappresenta oggi, in un’epoca in cui alcuni muri sono caduti e altri se ne vogliono costruire?
«Lì erano gli incubi personali di Waters che diventavano simbolo, che raggiunge il punto più alto quando nel 1990 è portato in scena ad Alexanderplatz, di fronte al Muro di Berlino demolito appena un anno prima. Oggi i muri vengono eretti (o minacciati) per contenere, separare: è solo l’inizio dell’evoluzione della trama di Waters, chissà se il finale sarà altrettanto liberatorio, o solo una prosecuzione dell’incubo».

Fu anche uno spartiacque nella storia dei Pink Floyd: finì con il dividere le strade del leader e del resto della band... 
«Lo spunto è proprio l’ultima tappa del tour precedente, quando Waters, innervosito dalla caciara di alcuni spettatori in prima fila, sputa verso di loro e pensa che vorrebbe costruire un muro fra il palco e il pubblico. Due anni dopo, i rapporti erano ormai usurati, in parte anche per le difficoltà di realizzare un album di tal magnitudo».

La sua peculiarità sta anche nell’essere un disco multimediale, da leggere su più livelli (disco, show, film)?
«Sì, anche se non è stato il primo. Gli Who con Tommy, dieci anni prima, e Quadrophenia, avevano già declinato la storia su più medium: disco, teatro, cinema, colonna sonora (The Wall ha anche una versione operistica)».

Al di là del messaggio di Waters, è un disco in cui ognuno può trovare nuove chiavi di lettura. È anche questo ad averlo reso sempre attuale?
«Sì, rimangono leggendari l’impianto mastodontico dal vivo, che Waters ora porta in tour solista (maggior incasso di sempre di un singolo performer), e la complessità della scrittura. Vi si intrecciano tanti temi diversi: la solitudine, la guerra (da sempre un tema fondamentale di Waters, il cui padre è morto nello sbarco alleato di Anzio), l’alienazione della star, la rigidità del sistema scolastico inglese, i sistemi totalitari. E, infine, la redenzione attraverso la presa di coscienza. È un disco molto visuale, che ripercorre un viaggio interiore paranoico e disperato, dentro e fuor di metafora».

Che tipo di hit fu il singolo “Another Brick In The Wall”?
«È un unicum – per arrangiamenti, ritmo - della loro storia. Molto lontana dagli inizi psichedelici. Non volevano farla uscire a 45 giri, non con quella base simil-disco. Fu il produttore Bob Ezrin a imporsi, ed è stata una delle chiavi del successo dell’album. Il brano – col coro di bambini che incalza - ha un’efficacia pazzesca».

Perché dopo “The Wall” è diventato sempre più difficile realizzare concept-album?
«Quelli erano gli anni dei concept-album, dischi con una trama e un pensiero unificante. Da Sgt. Pepper’s ai Pink Floyd è stata una stagione memorabile. Le rock opera non sono finite lì, ma ormai tutte le band che ne avevano i mezzi si erano già cimentate. È una buona idea, ma ambiziosa, complessa e perennemente a rischio di gigantismo e banalità insieme». 
Ultimo aggiornamento: Lunedì 25 Novembre 2019, 08:32
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