Alberto Fortis: «Questo virus maledetto può aiutarci a riscoprire la vera essenza della vita»

Video

di Rita Vecchio
NYente Da DiRe. Si scrive proprio in questo modo il nuovo singolo di Alberto Fortis che uscirà il 13 marzo. Gioca sul titolo e ripercorre la sua storia musicale di 40 anni (a giugno spegnerà 65 candeline) tra Italia, Stati Uniti e Inghilterra. Tra successi - La sedia di lillà, Il Duomo di notte, Milano e Vincenzo, La neña del Salvador - oltre un milione e mezzo di dischi venduti e sperimentazione. Collaborazioni con George Martin (produttore dei Beatles), Claudio Fabi e Carlos Alomar (produttore di David Bowie), gli incontri con Paul McCartney e Bob Dylan. Ed è con questo singolo, primo di una serie, che il cantautore originario di Domodossola si prepara all'uscita del nuovo disco nei prossimi mesi.
Innanzitutto bentornato, Fortis. Certo, il momento che stiamo vivendo non è tra i migliori.
«Da figlio di medici, e da ex studente in medicina, è uno scenario grave. Senza precedenti. Una situazione con grandi punti interrogativi sui rimedi. E un insieme di ipotesi (pure quella del complottismo). Ma quello che conta adesso è rispettare le regole e non diventare gregge di influencer vari. Qualsiasi sia la realtà, è una manifestazione di una malattia dell'esistenza».
In che senso?
«C'è una società che viaggia a una velocità sempre maggiore. Cerchiamo di non arrenderci e approfittiamo per dare oggi più che mai un aspetto terapeutico all'arte».
Che pensa dell'hashtag girato sui social, #Milanononsiferma?
«È una reazione mentale giusta per evitare psicosi. Dopodiché vanno rispettate le regole. Io sto a casa. E se proprio devo uscire, uso disinfettante, metto mascherine ed evito luoghi affollati».
È d'accordo con le misure di protezione?
«Assolutamente sì. Bisogna salvare gli umani senza paralizzare un paese. L'atteggiamento dei giovani che stanno a casa da scuola e che affollano le discoteche è un esempio sbagliato. Si fa appello alla coscienza civica e personale. E qui ci sarebbe tanto da dire».
Cosa può fare la musica?
«Non smettere di suonare. Sarebbe bello un tour surreale. A porte chiuse e in streaming. In poche città. Magari con un trio acustico davanti alle porte dei teatri. Per non cadere in depressione».
C'è il suo nuovo singolo in uscita.
«NYente Da DiRe, titolo dalle varie sfaccettature. NY di New York. La foto in copertina, scattata a Greenwich Village (posto a Manhattan che mi è caro). Un pop ritmico che vuole essere un messaggio: in un mondo dove sono tutti dei piccoli Einstein, io dichiaro di non avere nulla da dire».
Un po' forte. Perché?
«Perché è importante recuperare la sostanza delle cose e abbandonare il sensazionalismo. Dobbiamo riscoprire la profondità. Viviamo assetati di simultaneità. Non a caso la mia dedica a Seneca, filosofo sempre attuale. Paradossalmente, nella sua drammaticità, questo virus maledetto può farci riscoprire l'essenza di tutto: della vita, degli affetti, delle canzoni».
A proposito di canzoni, Sanremo?
«Ha fatto gol e questo conforta perché evidenzia oltre gusti e generi, che la qualità è premiata. Tosca, ad esempio, ne è prova».
Nel suo nuovo singolo canta Sbiaditi rapper melassa in amaro
«E aggiungo La grancassa del potere e l'inganno».
A chi si riferisce?
«Adoro la provocazione ed essere fuori dal coro. Non mi piace uniformarmi e non mi piace che l'arte e i cantanti si uniformino».
Qualche nome fuori dal coro?
«Anastasio. Ha credibilità».
E Achille Lauro?
«Non entro nello specifico di ognuno. Ma credo sia facile fare i fenomeni per creare polemica o scatenare scenate d'avanspettacolo. Il paragone con David Bowie o Renato Zero, con codici e parametri ovviamente diversi, corre veloce».
Ha nostalgia della musica dei suoi inizi?
«Oggi è tutto molto veloce. Allora c'era una competenza maggiore. Ho una convinzione, di memoria spielberghiana, che se togliessimo volgarità e la sostituissimo con cose con sale in zucca, alle nuove generazioni piacerebbe».
Lei ha aperto concerti di James Brown e ha vissuto tanto in America
«Ho respirato lo scenario losangelino e di tutta la musica del tempo. Me lo ricordo ancora quando mi proposero di aprire il suo concerto di Modena. Suonare nel 1979 in uno stadio dove volava di tutto, a me faceva terrore».
Come finì?
«Finì che volarono mutandine. Come a Woodstock. Lì ho capito che ero sulla strada giusta (ride, ndr)».
E Paul McCartney?
«Registravamo negli studi 1 e 2 degli Abbey Road di Londra. Lui Tug of War e io Fragole infinite con Claudio Fabi e la supervisione di George Martin, produttore dei Beatles. Era il 1982. Me lo ritrovai all'improvviso davanti. Andò in uno stanzino. E tornò con un microfono grande anni 60 che sostituì con quello con cui stavo cantando: era lo stesso che John Lennon aveva usato per Strawberry Fields Forever a cui il mio disco era dedicato».
E con Bob Dylan?
«Ho suonato prima del suo concerto a Genova, per il 500esimo anniversario dalla nascita dell'America. Mi disse: chi fa musica crea avendo antenne alte per captare cose nuove».
È vero?
«Sì. Solo così si può sperare in un Rinascimento musicale. Non sentirsi mai appagati e avere fame. Ricercando e sperimentando continuamente. Senza dimenticare il passato».

riproduzione riservata ®
Ultimo aggiornamento: Mercoledì 11 Marzo 2020, 11:49
© RIPRODUZIONE RISERVATA