Pupi Avati: «La qualità? Oggi conta solo lo share»

Pupi Avati: «La qualità? Oggi conta solo lo share»

di Claudio Fabretti
«Lino Banfi all’Unesco? Potevano scegliere chiunque, tanto in quella commissione non si fa nulla. In un anno e mezzo non è stata mai convocata». Un lapidario Pupi Avati dribbla così l’ultima discussa trovata del governo gialloverde.

La ritiene comunque una scelta sorprendente?
«Sì, ma forse Di Maio voleva andare incontro ai gusti della sua fascia di riferimento, quella popolare, del reddito di cittadinanza. Banfi ha sempre fatto un cinema lontano dal mio. Eppure una volta stavo per ingaggiarlo...».

Quando è successo?
«Per Regalo di Natale. Il protagonista doveva avere un passato di cinema di basso profilo. Lui all’inizio accettò, poi Cecchi Gori gli offrì di fare Pompieri, e allora rinunciò».

E lei puntò su Diego Abatantuono...
«Lo andammo a trovare a Rimini, dove viveva all’epoca. Non se la passava bene, dopo l’insuccesso dei suoi ultimi film. Lo misi alla prova: per la prima volta doveva rinunciare allo slang del “terrunciello”. Rimasero tutti interdetti nel vederlo recitare così bene in un ruolo drammatico. Mi ha detto che a quella chiamata deve la sua intera carriera».

C’è un film al quale si sente più legato?
«Storia di ragazzi e di ragazze. Volevo raccontare il fidanzamento di mia madre e mio padre, nel 1936. Ero reduce da un infarto devastante, così scelsi solo attori che mi volevano bene, tra cui anche Valeria Bruni Tedeschi all’esordio. Fu terapeutico, ne uscii guarito».

Quasi all’esordio era anche Christian De Sica nello sfortunato “Bordella” del 1976...
«Già, quello era un musical surreale, si passava dal parlato al canto e al ballo con sfrontatezza. Fu un flop. Oggi invece La La Land, con gli stessi ingredienti, è diventato un trionfo».

Ha presieduto la Fondazione Fellini. Che rapporto aveva con lui?
«Negli ultimi anni della sua vita ero diventato il suo confidente. Era una persona di straordinaria intelligenza e ironia. Si sentiva emarginato dal cinema italiano. Passeggiavamo per il centro di Roma e gli stranieri lo fermavano ricordando solo La Dolce Vita o Amarcord. Lui ci stava male: voleva piacere anche per ciò che aveva fatto dopo».

Come vede il cinema italiano di oggi?
«Dopo la stagione dei grandi maestri - De Sica, Blasetti, Antonioni, Comencini, Risi & C. - il declino è iniziato dal 1968 in poi. Si cercava la provocazione, volevamo tutti fare Otto e mezzo e non c’è riuscito nessuno. Oggi, invece, contano solo gli incassi. Come in tv: la qualità si misura con lo share».

A proposito di tv: riuscirà a fare il suo film su Dante?
«È dal 2001 che ci provo con la Rai. Mi sono mosso in anticipo di 20 anni sul centenario della morte di Alighieri. Ora ne mancano due e ancora aspetto notizie. Il soggetto però è chiaro: la storia di Dante raccontata da Boccaccio, che, dopo la morte del poeta, andò a Ravenna dalla figlia Antonia, per portarle 10 fiorini d’oro e raccogliere notizie sulla sua vita».

A cosa sta lavorando adesso, invece?
«Ho un piccolo gotico ambientato nelle valli di Comacchio negli anni 50 (Il Signor Diavolo), sullo stile di La casa dalle finestre che ridono. Poi sto sceneggiando il libro “Lei mi parla ancora” di Giuseppe Sgarbi, il papà di Vittorio. È la storia di un matrimonio che ha resistito alle avversità per 64 anni. Sa, io me ne intendo: sono sposato da 54 anni...».
Ultimo aggiornamento: Giovedì 24 Gennaio 2019, 09:02
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