Pupi Avati presenta “Il signor Diavolo”: «La mia creatività nasce dalla paura e da un omicidio nell’Italia del '52»

Pupi Avati presenta “Il signor Diavolo”: «La mia creatività nasce dalla paura e da un omicidio nell’Italia del '52»

di Michela Greco
«La mia creatività è nata soprattutto dalla paura. Dalle omelie minacciose dei sacerdoti preconciliari che, dal pulpito, esprimevano la loro competenza del male mentre guardavano insistentemente verso di me». Quarantatré anni dopo La casa dalle finestre che ridono, Pupi Avati è tornato alle atmosfere inquietanti della provincia padana per riportare il suo cinema in zona horror dopo tanti racconti consolatori e un po’ di tv. Dalle pagine del suo stesso romanzo, pubblicato con Guanda, il regista ha creato le immagini – e un nuovo finale – de Il signor diavolo, al cinema dal 22 agosto. 
«Una storia che mi appartiene da quando – ha ricordato in una conferenza stampa piuttosto inquieta – a 14 anni facevo il chierichetto professionista in Emilia e a casa assistevo a litigi doncamilleschi. Ho assorbito questo cattolicesimo superstizioso che mi ha permesso di dar vita a una favola contadina di cui sono protagonisti il male, il diavolo e la paura del buio. E ora ho cercato di raccontare ciò che so della vita per paragonare quelle storie al nostro presente». Allungando la lista degli ecclesiastici protagonisti dei suoi film – ce ne sono ad esempio in Zeder, ne L’arcano incantatore, ne Il nascondiglio – Avati si tuffa nell’Italia del 1952, quella in cui religione significava, appunto, anche folklore. In cui la Democrazia Cristiana interveniva capillarmente a scacciare le ombre per il bene della sua tenuta politica. In quest’ottica un ispettore del Ministero della Giustizia (Gabriele Lo Giudice) viene mandato a indagare sull’omicidio commesso da un adolescente nei confronti di un coetaneo deforme, dalla dentatura bestiale, che si dice sia indemoniato e, tempo prima, abbia sbranato la sorellina. L’inchiesta si rivolge al piccolo omicida e a chi lo circonda. Tra questi il sagrestano, il giudice, il parroco, tutti scelti tra collaboratori di lunga data del regista come Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Massimo Bonetti, Andrea Roncato, riuniti dalla famiglia Avati (Pupi con il fratello produttore-sceneggiatore Antonio e il figlio co-sceneggiatore Tommaso) per dimostrare che “il diavolo è ovunque e in chiunque, nessuno può evitare di essere sospettato”. Lo ripete a più riprese Avati, e allude persino a una presenza demoniaca che avrebbe aleggiato sul film. “C’è una persona che ha voluto la nostra rovina e ci è quasi riuscita”, dice, poi parte all’attacco della “schizzinosità ombelicale degli autori del cinema italiano, registi che snobbano il genere ma non la commedia, che però è fatta sempre con la stessa squadra e con la panchina corta”.
Ultimo aggiornamento: Martedì 23 Luglio 2019, 08:04
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