Johnny Depp: «Sono padre, per questo la morte non mi spaventa»

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di Alessandra De Tommasi
Sono rare le parentesi in cui il bad boy Johnny Depp sembra tranquillo. Una di queste l’ha vissuta sul set del nuovo film, Arrivederci professore, in sala dal 20 giugno dopo l’anteprima al Festival di Zurigo. Un progetto intimo e indipendente su un insegnante che scopre di essere malato terminale e decide di concludere l’esistenza a modo proprio.

Ha trovato angosciante pensare alla morte sul set?
«Al contrario, mi ha fatto apprezzare ancora di più la vita. Richard, il protagonista, fa inmodo che ogni momento conti e non si lascia più distrarre dalle cose importanti. Va avanti per la sua strada».

Ha pensato a come sarà la fine?
«Ho riflettuto sulla mia mortalità e ho capito che nella vita ognuno dovrebbe sperimentare almeno una volta la genitorialità. Per me essere padre è stata l’esperienza più profonda e significativa di tutte, continua a vivere dopo di te in un amore incondizionato».

Condivide il macabro umorismo di Richard?
«Certo, forse ti mette un po’ a disagio, ma non c’è niente di meglio che affrontare la morte con una bella risata. Richard è uno sveglio, non si chiede “perché io?”, visto che la risposta sarebbe: “perché qualsiasi altro?”.

Questa caratteristica è alla base della sua amicizia con Tim Burton?
«Il nostro incontro è stato un colpo di fulmine. Strano, certo, ma incredibile. Ero un ragazzo che lavorava in tv e voleva a tutti i costi essere licenziato per darsi al cinema, ma sapevo di non avere chance con lui e sono arrivato al bar dell’appuntamento già sconfitto e controvoglia. Eppure il copione di Edward mani di forbice mi aveva fatto piangere e sentivo quel personaggio dentro di me, non volevo mollare».

Com’è andata?
«Entrato nel locale ho visto un tizio con una massa di capelli arruffati che giocava convulsamente con il cucchiaio, uno magro e con mille tic, mi sono detto: “Dev’essere lui”. Abbiamo passato tre ore e mezza a parlare senza sosta, bevendo quindici tazze di caffè con lui che gesticolava come un pazzo e raccontava di un’infanzia molto simile alla mia. Alla fine sono uscito dalla caffetteria che masticavo pure io una posata».

Ora come sono i rapporti sul set?
«Siamo come fratelli, parliamo di tutti e a volte ci guardiamo per un quarto d’ora scrollando le spalle e muovendo le mani, come nel gioco dei mimi, senza dire niente ma ci capiamo lo stesso. Un elettricista dopo uno di questi dialoghi muti mi si è avvicinato dicendoci che ci ha osservati per tutto il tempo e non ha capito mezza cosa. Ma siamo due cocciuti e non ci serve la comunicazione verbale per entrare in sintonia. Per lui farei di tutto».

Le dispiace non esserci nel prossimo film su Jack Sparrow?
«Anche qui pensavo mi avrebbero licenziato già al primo, perché credevano tutti fossi pazzo, ubriaco o gay, mentre traballavo carico di ammennicoli alla prova costumi. Sapevo che non era un pirata come gli altri, non solo perché un tipo eccentrico ma anche perché avrà preso talmente tante botte in testa da ondeggiare sulla terra ferma come fosse una barca. I produttori pensavano sarei stata la rovina del franchise, invece ha funzionato. E interpretare il pirata nei reparti pediatrici è la cosa che mi rende più felice al mondo».
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Ultimo aggiornamento: Martedì 11 Giugno 2019, 08:39
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