Jean Reno torna in TV: «Amo la mia vita imperfetta»

Jean Reno torna in TV: «Amo la mia vita imperfetta»

di Alessandra De Tommasi

Uno, nessuno, centomila Jean Reno: il 74enne attore francese sta vivendo un momento d’oro. Per il piccolo schermo si fa in due: diventa maggiordomo nel thriller Un affare privato (Prime Video) e poi un androide in Quello che non ci siamo detti (Lionsgate+), progetti presentati al Festival della TV di Monte-Carlo. Inarrestabile, lo vedremo al cinema prossimamente in tre film: Lift, un heist con Sam Worthington; The man who saved Paris, un dramma ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e infine in The penguin & the fisherman, tratto dalla storia vera di un pescatore brasiliano che salva un pinguino dalla morte. Ma non parlategli di pensione…

Perché proprio il ruolo di un maggiordomo?

«Ha in sé una componente di mistero fortissima: sa essere invisibile o diventare qualunque cosa serva, da un amico ad un killer. E poi, ad essere onesto, mi trovavo intrappolato a casa durante la pandemia, il telefono non squillava da mesi ed era tutto fermo: l’idea di tornare sul set mi ha commosso».

Il suo robot ha le sembianze di un padre che vuole parlare dopo la morte alla figlia. Si considera un genitore affettuoso?

«Forse qualcosa di buono l’ho fatto se i miei figli mi parlano ancora, ma non credo dipenda dal numero di parole che abbiamo detto. Il segreto è esserci sempre per loro al momento giusto».

La sua sembra una passione smisurata e senza ego. È così?

«Recitare è la mia vita e ho sempre saputo che sarebbe diventata la mia strada.

Quando a 17 anni ho perso mia madre tutto si è complicato, il mondo mi sembrava un posto strano a cui appartenere, così mi sono ancorato alla gioia che avevo provato a 12 anni a scuola quando ho recitato per la prima volta».

Com’è andata?

«Avevamo lasciato Casablanca per trasferirci a Parigi e io non avevo certo il sacro fuoco dell’arte, ero un bambino spaesato e immigrato che voleva trovare un gruppo in cui sentirsi a casa di nuovo, con cui condividere interessi comuni».

Si è più sentito così?

«Negli Anni Settanta a Parigi dopo la scuola d’arte mi sono unito a una compagnia itinerante di 38 persone. Abbiamo fatto tappa al Teatro Tenda a Roma e ricordo l’ardore che ci animava tutti, anche i giorni in cui non si mangiava e non si riusciva a sbarcare il lunario. Da allora in poi l’Italia per me è diventato sinonimo di storia, d’arte, ma soprattutto di vita e felicità. Sapete godere delle piccole cose, come il caffè».

Rimpianti?

«Interpretando un robot mi sono chiesto: “E se potessi eliminare il dolore?”. No, non lo farei, come non rivivrei la vita dall’inizio, non me la sento di imitare Dio e mi piace l’idea di essere imperfetto. Vorrei essere più bello? Non me lo domando perché sono così e basta. D’altronde mi guardo allo specchio solo il tempo di lavarmi i denti al mattino, per cinque minuti, quindi non mi serve tanta avvenenza».


Ultimo aggiornamento: Giovedì 5 Gennaio 2023, 10:40
© RIPRODUZIONE RISERVATA