Robin Williams, arriva in Italia il film-testamento:
"Sulla mia lapide scrivete 1951-2014" -Foto

Robin Williams, arriva in Italia il film-testamento: "Sulla mia lapide scrivete 1951-2014"

di Michele Galvani
La morte, Robin Williams, l’aveva già vista in faccia.





E l’aveva vissuta e raccontata in quello che è stato uno dei suoi ultimi lavori, The angriest man in Brooklyn. Quasi un testamento, un grido d’aiuto rimasto soffocato. Una sorta di set del dolore, il santuario delle fragilità, delle paure e delle contraddizioni che avrebbero portato l’attore al suicidio l’11 agosto 2014, un anno e mezzo dopo il ciak di The angriest man in Brooklyn, per la regia di Phil Alden Robinson. Il film racconta la storia di un uomo a cui viene diagnostico un aneurisma fulminante e che, in soli 90 minuti (il tempo che secondo la dottoressa gli resta da vivere), cerca di rimettere insieme i cocci di una vita fallimentare, piena di rabbia (da angry, appunto) e rapporti controversi con la sua famiglia.







Uscito in America nella primavera 2014 con scarsissimo successo di pubblico, è appena approdato in Italia per essere doppiato. Dovrebbe vedere la luce entro l’estate. Ma, al di là della previsione degli incassi o della piattaforma su cui uscirà (potrebbe anche finire direttamente in prima tv), ciò che fa effetto è vedere come si dipana la sceneggiatura. E come si sviluppa il binomio Williams-morte.



LA SCOPERTA

L’avvocato Henry Altmann (Williams) ha un pessimo rapporto con la moglie e con il fratello ed è deluso dal figlio che sognava avvocato come lui (ma che invece aprirà una scuola di danza). Soprattutto Henry straborda di rabbia. Insulta un tassista, un pedone, la vita. Se stesso. Durante una giornata come tante, dopo un piccolo incidente in auto, scopre di avere una malattia fulminante. Un aneurisma. La dottoressa Sharon Gill (Mila Kunis) subisce le pesanti pressioni del paziente che le chiede «quanto tempo mi resta da vivere?» e per risposta inventa «90 minuti». Da questo momento in poi, in giacca e cravatta, Henry inizia la sua battaglia. Ha pochissimo tempo per riappacificarsi con la famiglia, con il mondo. Vuole chiedere scusa alla moglie (Melissa Leo) per averla trascurata (lei lo tradisce col vicino di casa), al fratello nano (l’attore Peter Dinklage) per non aver mai avuto un rapporto vero con lui e al figlio, al quale aveva già preparato il biglietto da visita da avvocato mentre il ragazzo sognava soltanto di ballare.



LE COINCIDENZE

Il film corre su un filone narrativo essenziale, quasi grezzo.
Williams riavvolge il nastro del proprio percorso umano: in quei pochi minuti che ha davanti, vuole buttare all’aria un passato dove ha pensato più a distruggere che a costruire. Come nella vita reale, quando piegato da alcol e droghe stava gettando al vento una carriera luminosa, tornata tale solo nel momento in cui la prima moglie Valerie rimase incinta. Qui, nel film, il protagonista vive più vita in 90 minuti che nei 60 anni passati. «Sto morendo», racconta a un vecchio amico in un pub. Poi si fa filmare mentre lascia il suo testamento al figlio. È un’anima in pena. Williams durante le riprese sembra viaggiare sempre sulle montagne russe. In un vortice tragicomico non esprime il massimo delle sue potenzialità, forse ha accettato la parte per coprire buchi finanziari. Piuttosto, pare voler seguire le orme del suo grandissimo amico John Belushi, il genio e l’eccesso, morto nell’82 a 33 anni per overdose. O soffrire come l’altra sua grande guida, Christopher Reeve, il Superman del grande schermo costretto su una sedia a rotelle dopo una caduta da cavallo e morto nel 2004 dopo 9 anni di calvario. E, mentre in questi giorni la famiglia ha iniziato tristemente a scannarsi per l’eredità, in The angriest man in Brooklyn, a un certo punta Robin ordina: «Sulla mia lapide scrivete solo 1951-2014». Data di nascita, data di morte. Tutto vero, tutto semplice. Agghiacciante.

Ultimo aggiornamento: Lunedì 9 Febbraio 2015, 12:17