I 90 anni di Enrico Lucherini, re dei press agent: una vita tra divi, registi e set su cui far chiacchierare la stampa

I 90 anni di Enrico Lucherini, re dei press agent: una vita tra divi, registi e set su cui far chiacchierare la stampa

di Totò Rizzo

«A un certo punto sbucò fuori un omino». Sembra l'incipit di una favola. Forse lo è. O meglio, di una vita da favola, quella di Enrico Lucherini, il più famoso press agent italiano, anzi il capostipite degli uffici stampa, il creatore di una nuova forma di comunicazione che non promuoveva soltanto un film o uno spettacolo, ma plasmava un artista in una celebrità, lo proiettava nella sfera del mito, trasformava un fatto in un evento. E se il fatto non c’era, tirava fuori una “lucherinata” dal cilindro della fantasia. Sessant’anni di mestiere e, in data 8 agosto 2022, 90 anni splendidamente vissuti e portati. 

Lucherini, il suo primo incontro col cinema.

«Avrò avuto 7 anni. Mio padre, un bravo medico, fu invitato, non so per quale occasione, insieme con altri medici a Cinecittà. E mi portò con sé. A un certo punto, nel teatro di posa, sbucò fuori un omino. Era Macario. Stava recitando in “Imputato, alzatevi!” di Mario Mattioli. Fu una folgorazione. Dissi: questo sarà il mio mondo». 

Lei infatti cominciò come attore.

«Mi iscrissi all’Accademia d’Arte Drammatica e debuttai entrando dalla porta principale, con la Compagnia dei Giovani (De Lullo-Falk-Valli, ndr.). Partii con loro anche per il Sudamerica, avevamo sei commedie in repertorio. Erano piccoli ruoli, per carità, ma era una scuola d’alto livello. Per il cinema avevo fatto diversi provini, tre pose in un film con Totò. Allora il lavoro dell’ufficio stampa non esisteva: uno spettacolo era pubblicizzato solo attraverso le locandine, un film dai “prossimamente” in sala. Insomma, ho cominciato a convincere produttori, registi e attori che bisognava inventarsi qualcosa di nuovo per attirare l’attenzione dei giornali e del pubblico». 

E fu subito un successo.

«Tra fine anni ’50 e i primi ’60 inanellai una serie di opere importanti: curato l’immagine di Sophia Loren per “La ciociara” di De Sica, lavorato per Fellini ne “La dolce vita”. Mi chiamò Luchino Visconti per “Il Gattopardo”, mi avrebbe voluto anche come assistente sul set ma non me la sentivo di restare in Sicilia cinque o sei mesi: così gli promisi che mi sarei occupato del lancio. Da lì in poi ho vissuto il trentennio forse più bello del cinema italiano. Mi sono divertito come un matto, quasi non ho avuto la sensazione di lavorare. D’altronde a quei tempi c’ero solo io. Oggi in Italia ci saranno almeno 300 uffici stampa». 

Il suo motto: “Purché se ne parli”. 

«Non è semplice come si crede. Esempio: per “Metti una sera a cena” di Peppino Patroni Griffi c’era una pletora di divi, dalla Girardot a Trintignant a Musante, il gioco sembrava facile ma c’era anche una bella e sconosciuta ragazza brasiliana al suo esordio, Florinda Bolkan. Come far parlare del film e di lei? Bene, Marina Cicogna diede una festa da ballo a Venezia, c’erano tutti, da Burton con la Taylor a De Sica, a Lancaster. Mi accorgo che Burton getta più di uno sguardo sulla giovane brasiliana. Vado dalla Cicogna e le faccio: chiedi a Burton se la invita a ballare, mi serve uno scatto, uno solo, ti prego. Richiesta accolta. L’indomani la foto Burton-Bolkan era su tutti i giornali. A farne le spese fu la Cicogna: Liz Taylor, inviperita, le scrisse una lettera di insulti e non volle più vederla in vita sua». 


L’attrice più empatica, più cordiale con i giornalisti?

«Sophia, ne nascessero cento come la Loren.

Le facevo cordone solo nei giorni in cui usciva stremata dal set».

La più ritrosa, introversa?

«Un’attrice che adesso non recita più e vive a Parigi: Francesca Dellera. Quando nel 1988 girò “La romana”, la miniserie tv per Canale 5, remake dell’omonimo film, soffiai sul fuoco dell’antipatia che sul set e fuori Gina Lollobrigida aveva nei suoi confronti. Gina, che nella pellicola degli anni ’50 aveva il ruolo della Dellera e adesso ricopriva invece quello della madre, non sopportava che Francesca dicesse alcune battute che lei aveva recitato nel film trent’anni prima. Così durante la scena in cui la Lollo doveva dire alla Dellera “vieni qui Adriana, figlia mia bella…”, Gina si fermava a “vieni qui Adriana, figlia mia”. La Dellera aspettava invano che Gina finisse la battuta e il set si bloccava. All’ennesimo ciak a vuoto, Patroni Griffi, che era il regista, scese dal trespolo e gridò alla Lollo: “Ma Gina, nel copione ci sta scritto bella, devi dirlo!”. E lei, gelida: “Non c’è bisogno, lo dico con gli occhi”». 

Il divo più capriccioso?

«Alain Delon. Era già famoso quando arrivò per girare “Il Gattopardo”: faceva sempre un casino, erano più i “no” che i “sì”».
 

Il più professionale? 

«Mastroianni. All’apparenza era tutto il contrario, invece Marcello era inappuntabile». 

La più bella?

«Sophia, non c’è gara. Scorra in sequenza le immagini de “La ciociara”, “Filumena” e “Una giornata particolare”».

Il più bello?

«Le direi Helmut Berger ma era troppo ossessionato dai suoi demoni. Bellissimo, pur nei suoi tratti irregolari, era Jean Paul Belmondo».

Gli attori di oggi raccontano ogni santo giorno tutto di sé sui social. Che ci sta a fare l’ufficio stampa?

«Infatti s’è perso ogni fascino, ogni mistero». 

Come sta oggi il cinema italiano?

«Che brutta domanda che mi fa. Non c’è più, mi dispiace dirlo, molti attori sembrano degli scappati da casa, sempre così stravolti, stressati».


Rimpianti per gli anni d’oro?

«Cinecittà era davvero la Hollywood sul Tevere. Volevano venire a girare qui da tutto il mondo». 
 

E per gli amici che non ci sono più?

«Mi mancano Visconti, Patroni Griffi, Mastroianni. Mi manca, anche se è vivissima, Florinda Bolkan: non ci si vede più da tempo». 

Lucherini, si sente un patriarca?
«Ma per carità, che parola orrenda. Piuttosto, abbiamo finito?». 

Sì, perché?

«Tra poco ho a pranzo una cara amica, Ursula Andress». 


Ultimo aggiornamento: Domenica 7 Agosto 2022, 20:12
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