Noia a Hammamet: oltre Favino, niente

Noia a Hammamet: oltre Favino, niente

di Boris Sollazzo
Checco Zalone ridicolizza Matteo Salvini, Gianni Amelio celebra Bettino Craxi. Non c'è nessuna furbizia populista in questo paragone, ma ci dice molto della bussola degli intellettuali al giorno d'oggi. E se il primo centra perfettamente l'obiettivo, il secondo invece sembra non voler sceglierlo mai. Già il titolo, e quindi l'ambientazione e la scelta del periodo della vita dell'ex leader socialista, è illuminante: Hammamet, l'esilio, il declino, il rancore lontano. Da Sigonella al Raphael - qui ridotte a caricature solo evocate - c'era materiale da vendere, una sceneggiatura già scritta, ma il cineasta che tra gli anni 80 e 90 ha saputo raccontarci l'Italia e ciò che le accadeva, l'identità storica di un paese contraddittorio come pochi altri, qui è nostalgico, confuso, non di rado nel racconto patetico. E così, nonostante un monumentale, straordinario Pierfrancesco Favino, Hammamet diventa un bignami superficiale di un leader, di un'epoca, di una politica ormai schiacciata dalla memoria solo sulle proprie malefatte. Craxi, personaggio titanico nel bene e nel male, qui ne esce come un uomo astioso, ansioso di dimostrare di non essersi arricchito, stonato nella reiterazione del ritornello dei costi della democrazia (e invece basterebbe rivedere il suo discorso al Parlamento o l'interrogatorio con Di Pietro per ricordare la profondità, sia pur ambigua, del suo ragionamento).
Il suo protagonista, soprattutto quando affiancato da talenti straordinari (Carpentieri e Cederna su tutti), lo eleva, prova a restituircelo nello spirito, non è mai imitativo (pur essendo trucco e voce perfetti), con una performance perfetta prova a cesellare le poche scene scritte dignitosamente, calibrando ironia dolente e epica decadente. Finisce solo però, con la sua eccellenza a evidenziare la mediocrità di un film che non trova mai un guizzo e soprattutto una direzione.
Ultimo aggiornamento: Giovedì 16 Gennaio 2020, 08:40
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