Sorpresa Alzheimer, è legato a doppio filo alla depressione

Sorpresa Alzheimer, è legato a doppio filo alla depressione

di Antonio Caperna
ROMA- E’ la morte dell'area del cervello che produce la dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto anche in motivazione e buonumore, ad essere all’origine dell’Alzheimer, e non la struttura del sistema nervoso centrale, l’ippocampo, primariamente coinvolta nelle funzioni della memoria. Così come è la depressione è una 'spia' della malattia e non viceversa.

E’ la sorprendente scoperta dell'équipe di ricercatori coordinati dal prof. Marcello D'Amelio, 42 anni, associato di Fisiologia umana e Neurofisiologia presso l'Università Campus Bio-Medico di Roma, pubblicato su Nature Communications in collaborazione con la Fondazione Irccs Santa Lucia e il Cnr di Roma. Il morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile, oggi in Italia colpisce, a seconda delle stime, 500-600 mila persone, pari al 5% delle persone over 60 anni. In Italia gli affetti da demenza sono circa 1,2 milioni e quasi la metà sono malati di Alzheimer. I costi superano gli 11 miliardi di euro e per il 73% sono a carico delle famiglie. Nessuno aveva finora pensato che potessero essere coinvolte altre aree del cervello nell'insorgenza della patologia. I ricercatori si sono resi conto che la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell'ippocampo, causandone il 'tilt' che genera la perdita di memoria.

Lo studio ha evidenziato, già nelle primissime fasi della malattia, la morte progressiva dei soli neuroni dell'area tegmentale ventrale e non di quelli dell'ippocampo.
Somministrando in laboratorio, su modelli animali, due diverse terapie si è visto il recupero completo della memoria, in tempi relativamente rapidi. Nel corso dei test, gli scienziati hanno registrato anche il pieno ripristino della facoltà motivazionale e della vitalità. Si tratta di una seconda, importante, scoperta. Inoltre i dati sperimentali hanno chiarito anche perché i farmaci cosiddetti inibitori della degradazione della dopamina si rivelino utili solo per alcuni pazienti: funzionano unicamente nelle fasi iniziali della malattia. Con la morte di tutte le cellule di quest'area, la dopamina smette del tutto di essere prodotta e il farmaco non è più efficace.

Ultimo aggiornamento: Lunedì 3 Aprile 2017, 21:06
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