Covid, primo contagio un anno fa in Cina. Salute, lavoro, affetti: così è cambiata la nostra vita

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di Mario Ajello

Non siamo più gli stessi da un anno. Vedevamo le mascherine solo nelle serie tivvù sugli ospedali. Ci eravamo dimenticati di una parola antica - pandemia - che a qualcuno evocava il medioevo e ai più non evocava niente. Ci pensavamo indistruttibili grazie alla scienza. Eravamo convinti che, finite le grandi guerre, la morte di massa non fosse più possibile. Ma un anno fa, di colpo, è cambiato tutto per tutti. Il 17 novembre 2019 si registrò il primo caso di Coronavirus nel mondo. Fu in Cina. Un uomo di 55 anni, residente nella provincia dell’Hubei - lì dove si trova Wuhan che sarebbe diventata l’epicentro dell’epidemia - risultò positivo a un virus e da quel momento, anche se ancora non lo sapevamo, il nostro immaginario, la nostra vita quotidiana, il rapporto con il nostro corpo, le relazioni sociali e di tutto e di più avrebbero cominciato a cambiare.

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La Cina è vicina, si diceva un tempo, giocando con la rima. Quel 17 novembre, e ciò che ne è seguito, ci avrebbe confermato questa prossimità. Il mondo è piccolo: ecco la prima scoperta che ci ha regalato quest’anno inimmaginabile. «Ne usciremo migliori», è stato il tormentone dei primi mesi della nuova vita insieme al virus. E se la luce in fondo al tunnel pensavamo di vederla presto, e già l’estate la vivemmo come l’inizio della liberazione, poi di nuovo lo sconforto (quello attuale) ma accompagnato da una fiammella (quella del vaccino che si avvicina). E intanto abbiamo imparato, lungo questi dodici mesi, che un tipo di verso di vita è possibile. La vita a distanza - modello Dad, per intenderci: ovvero per quanto riguarda le scuole, la Didattica A Distanza - si è rivelata una forma sostitutiva, o integrativa, di esistenza e questo resterà anche dopo (ma quando?) la fine del contagio. Siamo diventati uomini e donne digitali, più di prima, nello spazio tra il 17 novembre 2019 e il 17 novembre 2020.

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Abbiamo riscoperto il valore dei nostri anziani: da tutelare di più e meglio. E dunque il forever young, la finzione ideologica che la biologia non conti e che la terza età sia come la prima e la seconda è venuta meno. Il che, pur nel dramma provocato dal morbo, è un’acquisizione positiva: i giovani sono giovani, gli anziani sono anziani e tutto quello che i nostri genitori e i nostri nonni in questi anni ci hanno dato - spesso hanno mantenuto le generazioni meno garantite delle loro - adesso abbiamo capito che va loro ridato in termini di cura e di protezione di chi è più esposto al virus. Non solo. Sono cambiati i luoghi di lavoro (è nata la casa-ufficio con lo smart working), gli abbigliamenti delle persone (tu da quanto tempo non indossi più la cravatta che prima mettevi ogni giorno nelle riunioni, mentre adesso le fai in mutande tanto lo schermo si ferma prima di inquadrare l’ombelico?), i tempi (scatta il coprifuoco alle 22, devo correre a casa), i riti (la Pasqua? E’ saltata, e probabilmente salterà anche il Natale), i mezzi (prendere l’autobus? Ma siamo matti!), i discorsi (non si riesce a parlare di altro nelle conversazioni pubbliche e in quelle private per più di 5 minuti e poi si torna al temone e al tormentone: il Covid), i desideri: quando tutto sarà finito faccio questo, io questo, e io quest’altro.

Ma quando finirà? Prima si pensava che sarebbe finito a breve e «andrà tutto bene».

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Ora anche il senso del tempo si è dilatato, fino all’infinito: quando finirà? Boh! Non è più come prima il nostro rapporto con la scienza. Quando era lontana e faceva il suo lavoro senza venire sbalzata sul palcoscenico più globale come è accaduto a causa del Covid, godeva agli occhi di tutti - tranne che degli antiscientisti, dei fanatici che considerano la medicina un imbroglio e purtroppo sono sempre esistiti in gran quantità - di quel rispetto dovuto a chi sta su un altro livello. Poi i virologi sono diventati star televisive, personaggi da talk show, si sono confusi ai politici e si sono spesso dimostrati simili a loro e scesi dal piedistallo sono finiti nel tritacarne spettacolare e abbiamo imparato purtroppo a chiederci: ma ha ragione questo o quello? E quello è uno scienziato vero o un chiacchierone? Che fatica, fisica, mentale, sociale, è stato questo lungo anno in cui siamo diventati irriconoscibili a noi stessi. Dietro la mascherina, c’è gente diversa da quella che c’era prima a volto scoperto. Né migliore né peggiore. Siamo sempre noi ma - per esempio - se un tempo dicevamo «mi lavo le mani» oggi diciamo «mi igienizzo le mani». Se prima il divano era l’unico sport praticato, adesso pur di sentirci liberi corriamo tutti molto di più. E ancora: gli italiani da stipendio fisso e quelli da partita Iva erano meno diseguali prima di quanto lo siano adesso.

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In generale, anche se siamo tutti sulla stessa barca, le differenze di condizione economica - esempio: ho la villa in campagna e me ne vado a vivere lì non possono dirlo tutti quelli che temono le città del contagio - risultano più marcate. Un cambiamento in meglio riguarda l’anti-vaccinismo. Sembra in precipitosa discesa. Ma il vaccino deve arrivare e subito. Sennò, tutti questi cambiamenti e la maniera responsabile e condivisa con cui li abbiamo praticati per necessità si riveleranno insufficienti. Un anno di Covid è stata una prova dura ma dopo il Covid la nostra vita non smetterà di cambiare. Sapremo che la salute non è garantita di per sé. Dipende anzitutto da noi, e chissà se saremo - non solo dopo un anno dal 17 novembre 2019 ma anche dopo due, tre, quattro, dieci - cittadini più coscienziosi e più capaci di tutelare noi stessi e gli altri. Abbiamo capito la storia è complicata, non va avanti sempre in maniera lineare anzi può riportarci indietro - all’epoca delle epidemie - da un momento all’altro. Siamo più fragili, ma forse, anche, più intelligenti.

 

Ultimo aggiornamento: Martedì 17 Novembre 2020, 18:36
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