Coronavirus, le scienziate italiane che hanno isolato il virus: «L'avevamo già fatto con Ebola e Zika»

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di Mauro Evangelisti
«Piacere, sono la responsabile dell'Unità virus emergenti». Già quando si presenta, Concetta Castilletti, 56 anni, di Ragusa, sembra la protagonista di un film. E dietro il suo sorriso e alle parole semplici che tentano di riassumere un lavoro complicato, c'è una esperienza in prima linea contro le malattie infettive. A caccia dell'Ebola, dello Zika, e oggi del Coronavirus di Wuhan. Specializzata in microbiologia e virologia, scherza: «Venerdì erano le 22.30 quando abbiamo capito di avercela fatta. Abbiamo subito chiamato il direttore scientifico dell'istituto, Giuseppe Ippolito. Ed è stata una bella soddisfazione dopo ore e ore di lavoro».

State ripetendo: è stato un lavoro di squadra.
«Tutto il laboratorio sta lavorando sul Coronavirus, poi certo il rilevamento viene fatto da poche persone, ma è un'operazione di squadra».

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Nel laboratorio di protezione livello 3 usate precauzioni come tute e respiratori?
«È un livello di biocontenimento a pressione negativa, l'aria può entrare, ma non uscire. Noi applichiamo delle procedure di vestizione e svestizione. Utilizziamo oltre ai dispositivi di protezione individuale, anche degli strumenti che ci permettono di creare delle barriere tra noi e il virus. Si chiamano cappe a flusso laminare. Praticamente anche i campioni clinici vengono manipolati solo all'interno di queste cappe: anche qui l'aria può entrare ma non uscire».

Ma la cappa a flusso laminare è come una scatola?
«Sì (ride) è come una scatola, diciamo».
 
 


Quante ore ha lavorato su questa ricerca?
«I primi campioni chimici sono arrivati il 29, ma abbiamo iniziato quando il test è risultato positivo, il 30. È cresciuto molto in fretta. E poi abbiamo lavorato abbastanza, certo. Le abbiamo coccolate un po', queste cellule... Restiamo in laboratorio per quattro-cinque ore al giorno, anche oggi».

Perché vanno coccolate?
«Sono colture di cellule vive che vengono infettate prima con il campione clinico. E non sappiamo se riusciamo a isolare il virus perché non è adattato a crescere in vitro. Ottenere un isolamento non è la cosa più semplice del mondo, siamo stati fortunati. L'abbiamo fatto molto rapidamente, eravamo pronti. Noi e la Francia siamo stati i primi in Europa, ma ora anche altri Paesi stanno provando. Si tratta di un contributo a tutta la comunità scientifica».

Perché è importante avere il virus?
«Attualmente non siamo in grado di dosare gli anticorpi, per farlo bisogna mettere a punto dei test che prevedono l'utilizzo dei virus. Averlo a disposizione, ci consentirà di testare anche soggetti a rischio entrati a contatto con i pazienti, senza avere sviluppato la malattia. Sapere e conoscere come si evolve, come matura la risposta immunitaria è utilissimo per lo sviluppo del virus».

Quando avete capito di avercela fatta?
«Le immagini che abbiamo diffuso sono di venerdì, alle 22.30 ho chiamato il dottor Ippolito. Ho fatto anche in altre occasioni una telefonata di quel tipo. È avvenuto quando abbiamo isolato il virus dei due pazienti Ebola. E anche per il virus Zika».

Non avete mai paura?
«La paura è fondamentale, mantiene alta l'attenzione, ma deve essere una paura controllata. Ci aiuta a non fare imprudenze».

Qual è la sua storia?
«Nata a Ragusa, laureata a Catania, sono arrivata qui a Roma alla Sapienza, ho lavorato con la dottoressa Capobianchi e con lei sono giunta allo Spallanzani nel 2001. Sempre occupandomi di virus emergenti».

Come si concilia la vita privata con una missione di questo tipo?
«Bene, direi. Sono sposata e i miei due figli sono grandi. Sono studenti universitari, uno fa ingegneria biomedica, l'altro ingegneria gestionale. Io mi occupo sia di diagnostica, sia di ricerca. Sono abituati a questo genere di emergenze a casa mia, la mia vita è sempre stata questa. È sempre stato così. Sars, Ebola, influenza suina, chikungunya. Sono stata spesso in Africa. Non potrei fare un altro lavoro».
Ultimo aggiornamento: Lunedì 3 Febbraio 2020, 11:37
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