Alzheimer, scoperta forma di demenza che «imita» la malattia: in molti casi cure errate

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A milioni di anziani al mondo potrebbe essere stata erroneamente diagnosticata come Alzheimer una demenza che vede coinvolta, in realtà, un'altra proteina presente nel cervello. È una delle più importanti scoperte in materia fatte negli ultimi anni, frutto di una collaborazione internazionale coordinata dall'Università del Kentucky e pubblicata sulla rivista Brain. Il risultato potrebbe anche spiegare, in parte, perché la ricerca di una cura per l'Alzheimer abbia finora fallito. La demenza non è una singola malattia, ma è il nome di un gruppo di sintomi che includono problemi della memoria, del comportamento e del pensiero. 

La memoria di anziani può ringiovanire: la scoperta degli scienziati della Northwestern University

 
Il nuovo studio mostra che questo porta ad alterazioni della memoria e delle abilità cognitive simili all'Alzheimer, ma che insorgono più lentamente. «Questa patologia è stata sempre presente, ma la riconosciamo ora per la prima volta», spiega l'autore principale, Pete Nelson, dell'Università del Kentucky. Ciò potrebbe spiegare i fallimenti di alcune terapie anti Alzheimer che prendevano di mira le proteine tau e amiloide: potrebbero esser state testate su persone che avevano questa condizione. «Questo - conclude Robert Howard dello University College London - ha importanti implicazioni per la scelta dei partecipanti nelle sperimentazioni future».Molto spesso non è diagnosticata e può presentarsi in forme diverse: il morbo di Alzheimer, dovuto ad accumuli nel cervello delle proteine amiloide e tau, è quello su cui è stata fatta più ricerca ma, negli ultra 80enni, potrebbe non essere la principale causa. Fino a un terzo dei presunti casi di Alzheimer, in questa fascia di età, potrebbe infatti esser causato o convivere, con una condizione ora individuata e descritta: l'encefalopatia prevalentemente limbica TDP-43 correlata all'età, o Late.

Una rivoluzionaria scoperta sull'Alzheimer ha origini pontine

All'origine vi è l'accumulo della proteina TDP-43 nel cervello, una condizione che, secondo studi effettuati post mortem, è presente in ben un anziano su 5 dopo gli 80 anni e in uno su 4 dopo gli 85. Il nuovo studio mostra che questo porta ad alterazioni della memoria e del comportamento simili ai sintomi dell'Alzheimer, ma che progrediscono più lentamente. «Le prove si sono accumulate per molti anni, ma ora riconosciamo bene questa patologia per la prima volta. C'è molto lavoro da fare, questo è più un punto di partenza che un punto di arrivo», spiega l'autore principale, Pete Nelson, dell'Università del Kentucky. «Sono in aumento - chiarisce Camillo Marra, responsabile della Clinica della Memoria della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs di Roma - le demenze senili, perché aumenta la vita media della popolazione. Queste erano finora assimilate all'Alzheimer, ma è già noto che le forme senili hanno caratteristiche particolari: sono più lente, colpiscono prevalentemente la memoria e compromettono meno le altre funzioni cognitive.

Si è ora scoperto che sono associate un'alterazione della proteina TDP-43. Quest'ultima è nota per il suo coinvolgimento con la Sla e in altri processi neurodegenerativi. Alla luce di questa scoperta è verosimile che molti casi diagnosticati come Alzheimer siamo legati all'alterazione di questa proteina». Questo studio, aggiunge, «è molto importante perché può spiegare il fallimento di molti trial farmacologici, indirizzati finora solo a colpire la Tau e la Betamiloide». Una parte considerevole dei partecipanti infatti potrebbe essere stata affetta anche da queste alterazioni patologiche. «Potremmo pensare di tornare indietro e ricontrollare tutte le persone per cui sono fallite le terapie anti Alzheimer. Ma quello che dobbiamo realmente fare è andare avanti e cercare di selezionare meglio i pazienti per i futuri trial», precisa Nelson. Il nuovo studio, commenta Gabriella Salvini Porro, presidente Federazione Alzheimer, «dimostra la complessità delle malattie che colpiscono la memoria ma dimostra anche che la ricerca in quest'area è molto attiva in tutto il mondo. Ciò è positivo per i pazienti e fa ben sperare per il futuro».
Ultimo aggiornamento: Giovedì 2 Maggio 2019, 20:41
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