Long Covid, i sintomi: come riconoscerli, quanto durano e cosa accade dopo la guarigione

Superata la malattia, il virus potrebbe lasciare conseguenze rischiose per la nostra salute. La guida completa

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di Giampiero Valenza

Non è facile sbarazzarsi del Covid. Neanche quando l’ultimo dei test ci dice che il virus non c’è più. Il suo passaggio nell’organismo si potrebbe sentire per mesi con il “Long Covid”, cioè l’insieme degli effetti che l'infezione lascia e che durano per molto tempo. Il termine, ormai riconosciuto internazionalmente, ha una forte impronta italiana: è quella di Elisa Perego, ricercatrice dell’Istituto di Archeologia dello University College London, che il 20 marzo del 2020 usò quella definizione postandola su Twitter un commento a una notizia su una lunga positività al virus, poi passato agli onori della ricerca scientifica su un articolo del British Medical Journal.

Cos’è esattamente il long Covid?

Un lavoro pubblicato su Lancet Infectious Diseases lo descrive come una condizione che «si verifica in individui con una storia di infezione da Sars Cov-2 probabile o confermata, di solito a 3 mesi dall'esordio, con sintomi che durano almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa. I sintomi comuni includono (ma non sono limitati a questi), affaticamento, mancanza di respiro e disfunzione cognitiva e generalmente hanno un impatto quotidiano. I sintomi potrebbero essere di nuova insorgenza dopo il recupero iniziale da un episodio acuto di Covid-19 o persistere dalla malattia iniziale, potrebbero anche fluttuare o ricadere nel tempo».

Effetti di questo genere sono tipici di diversi stati infiammatori. Per esempio, chi si riprende dall’ebola può soffrire della “sindrome da virus post-ebola”, con dolori articolari, problemi agli occhi (che possono portare anche alla cecità), disturbi muscolari e neurologici. Ma c’è anche la sindrome post-poliomelite (causata dai danni dell’infezione sul sistema nervoso).

 

I sintomi

La stanchezza. Un lavoro della Scuola di medicina Ichan a Mount Sinai fotografa un dato: quasi un paziente di Covid su due con la versione “Long” dell’infezione (il 46%) sente una sindrome di affaticamento cronico. Nello studio pubblicato su Jacc Heart Failure descrivono questo stato con dolori muscolari e articolari, stanchezza cronica e depressione. Inoltre, è emerso che tutte queste persone avevano anche difficoltà respiratorie, con respiro affannato e troppo superficiale, aspetto che porta a pensare che la fatica cronica sia la risultante di queste difficoltà respiratorie persistenti.

Gusto, olfatto e cefalea. La perdita di gusto e olfatto rimane nel Long Covid. In quasi una persona su 4 i disturbi dell’olfatto possono restare anche per un anno, se non di più. Questo quanto hanno descritto su Brain Sciences i ricercatori italo-statunitensi delle Università di Catania, dell’azienda ospedaliera San Giovanni Addolorata, dell'Università del Michigan e della Wayne State University di Detroit. Nel lavoro è emerso che il 32,8% dei pazienti aveva assenza di olfatto, il 16,4% riduzione dell'olfatto, il 6,6% una disfunzione dell'olfatto, e il 38,2% una combinazione di queste ultime due. La cefalea è stata segnalata in una persona su due e la confusione mentale nel 46,7% dei casi.

Il cuore. Almeno un anno dopo l’infezione, secondo un lavoro pubblicato su Nature Medicine, può esserci un aumento del rischio di patologie cardiache. Tra queste, aritmie, infiammazioni, coaguli di sangue, ictus, malattie coronariche, infarto. «Per le persone che erano chiaramente a rischio di una condizione cardiaca prima di essere infettate da Sars-CoV-2, i risultati suggeriscono che Covid-19 potrebbe amplificare il rischio", ha affermato l'autore senior della ricerca, Ziyad Al-Aly, docente di medicina alla Washington University di St. Louis. Grzie a questo lavoro è emerso che il rischio è del 72% più grande di avere una malattia coronarica, 63% in più per l’infarto e 52% in più di ictus. Secondo lo studio ci sarebbero nel mondo 15 milioni di malati cardiologici in più a causa del Covid.

I polmoni. Nel 60% dei casi i pazienti con Covid a due mesi dalla dimissione sono ancora sintomatici, percentuale che si riduce a 6 mesi ma che rimane comunque alta, il 40%.

I sintomi più frequentemente riportati sono: fatica a respirare, debolezza e tosse, seguono dolore toracico, tachicardia, disturbi dell’equilibrio, nausea o febbricola. Lo attesta lo studio osservazionale condotto dalla Pneumologia e Terapia Intensiva Respiratoria dell’Irccs Policlinico di Sant’Orsola diretta dal professore Stefano Nava, pubblicato sulla rivista internazionale Respiration.

Le prove di funzionalità respiratoria individuano un miglioramento significativo della funzionalità polmonare da due a sei mesi, con l’86% dei pazienti che mostrano una spirometria nella norma a sei mesi dalla dimissione. L’esame funzionale che più spesso si rivela alterato a sei mesi è la diffusione alveolo-capillare del monossido di carbonio (Dlco), un test che misura la capacità della membrana alveolo capillare del polmone di scambiare l’ossigeno. Questa osservazione è giustificata dal fatto che la polmonite da Covid-19, essendo una polmonite interstiziale, va ad interessare proprio questa struttura polmonare, il cui recupero completo può richiedere anche più di sei mesi. Il test del cammino dei sei minuti mostra che i pazienti che hanno avuto una polmonite interstiziale più severa in acuto, a due mesi dalla dimissione percorrono distanze inferiori e tendono ad avere una desaturazione maggiore sotto sforzo. Questi dati tendono comunque a migliorare nel tempo, lasciando intendere una progressiva ripresa della tolleranza allo sforzo, anche in assenza di un programma riabilitativo standardizzato.

Radiologicamente la maggior parte (64%) dei pazienti presenta, a due mesi dal ricovero, alterazioni alle lastre al torace; tuttavia, confrontando la Tac torace eseguita durante il ricovero ospedaliero con quella condotta a sei mesi, si può notare una progressiva riduzione dell’estensione della malattia e della densità delle consolidazioni polmonari. Ancora una volta, le Tac al torace che mostrano quadri più severi a sei mesi sono quelle dei pazienti che sono stati più gravi durante il ricovero. Solo il 26% delle Tac a sei mesi sono completamente “ripulite”: tuttavia, per sua natura, la polmonite interstiziale richiede molto tempo per risolversi radiologicamente, e come in tutte le polmoniti, la guarigione clinica precede quella radiologica. Per i ricercatori bolognesi «per nessuno dei cento pazienti la malattia da Sars Cov-2 è stata una semplice “polmonite”, anzi, ha creato profonde ferite, non solo del corpo, che lasceranno una cicatrice forse indelebile».

L’origine della malattia

Ma come nasce il Long Covid? Secondo una ricerca catalana dell’Università Germans Trias i Pujol che è stata presentata a Lisbona per l’Eccmid, lo European Congress of Clinical Microbiology and Infectious Diseases, sarebbe uno degli effetti di Sars Cov-2 sul nervo vago, che collega il cervello con intestino, cuore, polmoni e che regola diverse funzioni dell’organismo, come il battito del cuore, la voce e la deglutizione. Secondo i ricercatori della Università del Nuovo Galles del Sud, a Sidney, che in tal proposito hanno pubblicato un lavoro su Nature Immunology, all’origine potrebbe esserci una iper attivazione del sistema immunitario che continua anche dopo la fase acuta della malattia e che può continuare per mesi. Dalle analisi di 31 pazienti è emerso che le persone che si erano ammalate di Covid avevano una persistente alterazione del sistema immunitario, in particolare avevano un'alta attività delle cellule dell'immunità innata, un'elevata espressione di interferone beta e lambda (proteine che l'organismo usa per combattere le infezioni) e di molecole infiammatorie.

La frequenza della malattia

Un lavoro francese pubblicato su Clinical Microbiology and Infection, confermato anche da diverse altre ricerche, ha dimostrato che c’è una maggiore frequenza di Long Covid tra chi ha avuto un decorso più grave e che quindi è andato in ospedale. La vaccinazione, con la sua efficacia nella protezione da casi Covid più severi, può dunque contribuire a ridurre le conseguenze una volta tornati negativi.

Cosa accade nei bambini?

Una ricerca condotta dai pediatri della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e pubblicato su Acta Paediatrica ad aprile 2021, ha coinvolto 129 ragazzi e bambini con diagnosi di Covid-19. Durante la fase acuta dell’infezione, il 25,6% dei bambini arruolati in questo studio era asintomatico, il 74,4% aveva presentato sintomi; 6 bambini avevano avuto bisogno di un ricovero e 3 di un ricovero in terapia intensiva. Tre piccoli hanno sviluppato la sindrome infiammatoria multisistemica (caratterizzata da febbre, segni di infiammazione sistemica fino alla tempesta citochinica, grave compromissione respiratoria e cardiaca, fino allo shock, vasculiti, aneurismi delle arterie coronariche; può colpire in modo grave anche reni, cervello, occhi, intestino) e due la miocardite.

Il 41,8% dei positivi si è ripreso completamente dal Covid-19, ma il 35,7% mostrava persistenza di uno-due sintomi e il 22,5% di 3 o più sintomi. Tra i sintomi di long Covid più frequenti, l’insonnia (18,6%), la persistenza di sintomi respiratori (compresi dolore e senso di costrizione toracica) nel 14,7%, la congestione nasale (12,4%), la fatigue (10,8%), dolori muscolari (10,1%) e alle articolazioni (6,9%) e difficoltà di concentrazione (10,1%).


Ultimo aggiornamento: Martedì 15 Febbraio 2022, 20:17
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