La prima volta di Paolo Scudieri:
«Quell'invito di Ferrari,
partii di notte per Maranello»

La prima volta di Paolo Scudieri: «Quell'invito di Ferrari, partii di notte per Maranello»

di Maria Chiara Aulisio
Aveva solo otto anni il piccolo Paolo, quando, parlando delle sue passioni, metteva al primo posto - tra lo stupore dei grandi e soprattutto dei bambini come lui - il poliuretano espanso. Che in altre parole voleva dire raggiungere - insieme con sua sorella - un deposito al piano terra dell'azienda di famiglia. E lì, mettersi a ballare e saltare e giocare su grandi blocchi composti da uno strano materiale flessibile, che ai suoi occhi appariva molto più utile a rifornire un gigantesco luna park che all'uso al quale lo destinava invece suo padre, Achille Scudieri.

Il poliuretano espanso, dunque. Strana passione per un bambino.
«Sono nato con quell'odore, che invadeva la nostra casa di Ottaviano. L'opificio era nello stesso palazzo nel quale abitavamo, casa e bottega praticamente».

Quando ha pensato - per la prima volta - che avrebbe seguito le orme di suo padre?
«Quasi subito. Sapevo che mi sarei occupato dell'azienda di famiglia, e anche i miei studi furono orientati in quel senso, dopo il liceo scientifico a Somma Vesuviana, scelsi di trasferirmi a Basilea: lì, la facoltà di Ingegneria aveva un indirizzo di studio molto più specifico, rispetto al lavoro che avrei dovuto fare».

Infanzia e adolescenza a Ottaviano.
«Vita di famiglia, direi. Pochi amici, ma tanti cugini - stavamo sempre insieme, il rapporto era quasi fraterno. Avevo sedici anni, forse diciassette, quando ho cominciato a relazionarmi un po' più concretamente con il mondo esterno».

D'altronde, aveva anche il suo personale luna park.
«Non solo. C'era anche un altro gioco che mi piaceva tanto, e che rendeva pure qualche lira».

Quale?
«Il nonno, con i fratelli, aveva una grande camiceria. Cinquecento dipendenti, sede nel cuore del paese: un palazzo enorme, bellissimo. Frequentavo la scuola elementare, e buona parte del mio tempo libero la passavo lì».

A fare cosa?
«Imbustavo e mettevo in scatola le camicie appena stirate. Il profumo del lino e del cotone ancora lo sento, e mi incantavo a guardare le fasi attraverso le quali da un rotolo di stoffa si materializzava la camicia. C'era zio Mario a dirigere le operazioni e, a fine lavoro, mi dava sempre una paghetta della quale andavo molto fiero».

Insomma, ha cominciato presto.
«Mia sorella ed io siamo stati educati in maniera molto spartana e rigorosa. Studio, impegno e lavoro: a casa mia niente era gratis. E ancora li ringrazio, i miei genitori, ciò che sono riuscito a fare è anche frutto di quella formazione».

Mamma severa?
«Non avrei mai pensato di fare qualcosa che lei non condividesse. Per intenderci: se diceva no, era no, non si apriva il dibattito».

Quindi, non le ha mai disobbedito?
«Una volta, sì. Ma non potevo fare diversamente: la questione era troppo importante».

Addirittura? Racconti.
«Avevo circa 20 anni, ero già un grande appassionato di Ferrari, conoscevo pure il giorno del compleanno di Enzo Ferrari. Così, da fan, decisi di mandargli un biglietto di auguri a Maranello».

Mica Ferrari le rispose?
«E io mica me l'aspettavo, figuriamoci. Quando un giorno, non so neanche perché, andai a frugare nella buca delle lettere, che nessuno apriva mai, e ci trovai una busta gialla con il mitico cavallino nero. Rischiai l'infarto».

Enzo Ferrari?
«Proprio lui. Mi invitava a Maranello e mi dava appuntamento per il giorno dopo alle 8.30. Chissà quella lettera quanto tempo prima era arrivata... Non sapevo cosa fare, erano le cinque del pomeriggio e dovevo partire subito. Così, andai a dirlo a mia madre».

E lei?
«Ma sei pazzo? Dove vai a quest'ora? A Maranello? Per carità, non se ne parla proprio. Ecco, quella forse fu l'unica volta in cui feci di testa mia e le disobbedii. Avevo una Lancia Delta 1600, chiamai due amici, e via. Arrivammo di notte, dormimmo in macchina, ma alle 8.30 in punto ero davanti alla scrivania del mio mito».

Come andò l'incontro?
«Molto bene. Durò poco ovviamente, ma ci fu subito sintonia. In quel momento, mai avrei pensato che, di lì a qualche anno, sarei diventato un loro fornitore. Come è vero che la vita è fatta anche di fatalità e combinazioni».

Qual è stato il primo prodotto che ha realizzato per le rosse?
«Un vano portaoggetti in poliuretano, che la Ferrari montò su una vettura modello 208 Turbo. C'era la necessità di realizzare un piccolo contenitore per i guanti, tra i due sedili anteriori». 

Bel privilegio incontrare Enzo Ferrari.
«Non credo che invitasse tutti quelli che gli scrivevano. La mia lettera, forse, gli sarà piaciuta più di altre. In ogni caso, per me fu un'emozione enorme. E chi se lo scorda: nel suo studio, aveva appesi al muro i pezzi di motore con qualche difetto. Insomma, tutti gli errori meccanici che, in pista, avevano penalizzato le sue meravigliose e incredibili creature. Per Enzo Ferrari, sul podio bisognava essere primi; il secondo - diceva sempre - era il primo degli ultimi».

Facciamo un passo indietro. Suo padre come cominciò a utilizzare il poliuretano?
«Andiamo a metà anni Cinquanta, papà produceva camicie e pigiami anche lui. Durante una fiera in Germania, scoprì il poliuretano espanso, e decise di trasformare l'azienda. Fu una bella intuizione».

Veniamo a lei. Neo ingegnere di ritorno da Basilea.
«Quando ho preso il comando dell'azienda, c'erano 30 dipendenti e un fatturato di qualche centinaio di milioni di lire. Si rifornivano gli opifici che producevano materassi e imbottiture per attrezzature domestiche. Mi resi subito conto che non poteva bastare e decisi di adattare la novità al mondo delle vetture».

Bella intuizione anche la sua.
«Non fu facile farmi strada. Ero a capo di una piccola azienda del Sud, senza raccomandazioni e padrini politici. E, per giunta, proponevamo prodotti utili e vantaggiosi».

Da cancellare subito.
«Basta un esempio. L'Alfa Romeo, in quegli anni dell'Iri, per farmi fuori, al posto di prodotti in poliuretano, mi chiese viti e bulloni. Ma non bastò a scoraggiarmi, sapevo di essere sulla strada giusta. Ci vuole tenacia, e prima o poi ce la fai».

E lei ce l'ha fatta.
«Cominciai a lavorare con la Fiat, mi concessero la fornitura di piccoli insonorizzanti all'interno delle vetture. Fu l'inizio».

Poi, il successo.
«Oggi siamo primi in Italia, e secondi nel mondo. Tra i nostri clienti: Porsche, Audi, Rolls-Royce, Agusta, Boeing, Bombardier. E Ferrari, naturalmente».

Partendo da Ottaviano.
«E, soprattutto, restando a Ottaviano». 
Ultimo aggiornamento: Venerdì 1 Maggio 2020, 18:00
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