Tamponi, la beffa dei test salivari a scuola. Spesi 5 milioni nel Lazio, «ma sono inutilizzabili»

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di Alessia Marani e Francesco Pacifico

Avrebbero dovuto contribuire a rendere le scuole, soprattutto le primarie, più sicure e a prova di contagio. Per questo la Regione, sulla scia di quanto intrapreso anche in Veneto, aveva approntato un bando per ordinarne kit per un equivalente di quasi cinque milioni di euro, dopo averne annunciato già a settembre e poi a gennaio di quest’anno un utilizzo di massa. Invece, alla lunga, i test salivari non si sono rivelati così affidabili o, comunque, sono stati superati “in corsa” dai rapidi antigenici che si sono mostrati più efficaci nelle risposte e di più rapida analisi in laboratorio. Dopo l’avvio della gara a dicembre, l’apertura delle offerte pervenute (in realtà da una sola azienda la Fujirebio, multinazionale giapponese con sede italiana a Pomezia) a gennaio, a metà febbraio è stata sancita l’aggiudicazione per l’approvvigionamento di 600mila kit dal valore ciascuno di 8 euro per un impegno di spesa complessivo di 4,8 milioni.

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Ma tre giorni fa nella consueta riunione settimanale tra unità di crisi regionale anti-Covid e Ufficio scolastico regionale, nel discutere della riapertura di materne, elementari e medie in vista del ritorno del Lazio in zona arancione, è arrivata la doccia gelata: i salivari non saranno più impiegati per valutare la positività o meno dei piccoli alunni, nessuno screening massiccio verrà dunque effettuato con i test che, stando almeno ai programmi di qualche mese fa e dopo un percorso di validazione terminato a dicembre allo Spallanzani, avrebbero dovuto costituire l’arma principale per tutelare la sicurezza dei bimbi delle materne e dei piccoli alunni di elementari e medie in alternativa ai più invasivi e fastidiosi tamponi nasali. 

LE PECCHE
Erano stati i pediatri, infatti, a chiedere test diversi per i bambini più piccoli per il pericolo di possibili microlesioni nell’apparato nasale e, comunque, per i più piccoli sarebbe stato più semplice e simile a un gioco masticare il “chewing gum” su cui lasciare le particelle salivari da mandare poi in laboratorio per l’analisi.

Ma è proprio su questa procedura che, fin dagli utilizzi sperimentali, si sono palesate le pecche. Innanzitutto i campioni di saliva repertati rischiano di asciugarsi in tempi molto rapidi e di arrivare nei laboratori con carica non sufficiente per essere esaminata. Non tutte le scuole hanno, di fatto, la logistica adatta per prelevare il chewing gum e portarlo a brevissimo giro di posta nel centro analisi che, tra l’altro, deve essere a disposizione immediata degli istituti. Non solo. Se è vero che masticare una specie di gomma o bagnare un batuffolino di cotone per un bambino può essere più facile, è pure vero che, in corso d’opera, si è dovuto per esempio raccomandare ai genitori di non lavare i denti o evitare di bere acqua prima del test.

Nella saliva, infine, ci sono meno antigeni, quindi per questo si rischiano tanti falsi negativi. Tant’è che all’inizio di dicembre, per esempio, all’istituto per l’infanzia Giovanni Paolo II di Civitavecchia, su sessanta test effettuati appena sei erano risultati «analizzabili» in laboratorio rendendo inutile la prova. Secondo il cronoprogramma iniziale, nel Lazio i salivari se ne sarebbero dovuti utilizzare circa 150mila al mese arrivando a un primo screening di massa per 600mila allievi. Il bando, infatti, comprendeva una fornitura per 4 mesi iniziali. Ma ora se alle scuole non saranno distribuiti in massa, l’acquisto sembrerebbe sproporzionato all’uso reale. La Regione fa sapere, intanto, che i test saranno comunque usati quando si presenteranno dei casi nelle scuole, soprattutto quelle dove ci sono bambini più piccoli, in caso di adulti con disagi refrattari al tampone nasale e che i kit sono stati già consegnati alle Asl.
 


Ultimo aggiornamento: Domenica 28 Marzo 2021, 17:47
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