Dopo anni tra indagini, sequestri e processi, lo scandalo “Multopoli” che ha travolto il Campidoglio si conclude con un nulla di fatto: i giudici della Corte dei conti non hanno riconosciuto nemmeno un euro dei 17 milioni di danno erariale contestati a due ex dirigenti e a due dipendenti dell’Ufficio contravvenzioni. Sono stati tutti quanti assolti, sia in primo che in secondo grado, mentre il Comune è stato anche condannato a pagare le spese legali, quantificate in circa 60mila euro. Nessun danno, quindi, e una beffa clamorosa.
Multopoli, il processo
Non va meglio il versante penale della vicenda, nel quale, oltre ai dipendenti capitolini, erano finiti sotto inchiesta anche i cittadini che avrebbero beneficiato di un servizio di favore, vedendosi annullate migliaia di contravvenzioni accumulate negli anni. Un nome spiccava tra tutti: quello di Claudio Lotito, il patron della Lazio, che era accusato di truffa. Anche in questo caso la Procura ha dovuto alzare bandiera bianca: il giudice ha dichiarato la prescrizione dei reati, al termine di un’inchiesta che si è trascinata per anni. Per quanto riguarda il presidente biancoceleste, inoltre, i giudici della Corte dei conti - nella sentenza di primo grado - sottolineavano che i 26mila euro di sanzioni cancellate (e poi comunque pagate da Lotito) riconducibili alle auto di due sue società, facevano parte di una procedura regolare, visto che il presidente era sotto scorta e le macchine non dovevano essere multate, perché erano servite per il suo trasporto.
Sotto accusa, c’erano Pasquale Libero Pelusi, all’epoca dirigente del dipartimento Risorse economiche - e ora direttore del I Municipio -, le sue segretarie Laura Cirelli e Maria Rita Rongoni, e Patrizia Del Vecchio, responsabile della Gestione dei procedimenti connessi alle entrate extra-tributarie, quest’ultima accusata solo del disservizio e non dell’annullamento dei verbali.
Secondo i magistrati, migliaia di multe sarebbero state cestinate senza rispettare la procedura e senza effettuare un’istruttoria, oppure allegando alle cartelle atti falsi. E a organizzare il sistema, per l’accusa, sarebbe stato Pelusi. I giudici, invece, hanno condiviso la tesi della difesa: «Non è stata dimostrata la perdita erariale», visto che «Pelusi, unitamente alle due addette alla segreteria, avrebbe agito in ossequio alle disposizioni organizzative e procedurali, valutando la documentazione». Per sostenere l’accusa sarebbe stato utilizzato un «mero elenco delle oltre 7.000 cartelle oggetto di discarico, indistintamente ritenute frutto di un’operazione illecita». I diretti interessati, invece, hanno prodotto nel giudizio «i fascicoli integrali riferiti a ciascuna delle 7.939 pratiche, per smentire l’assenza di istruttoria» e dimostrare «l’esistenza di motivazioni idonee a supportare i discarichi».
Ultimo aggiornamento: Sabato 20 Maggio 2023, 00:48
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