Obiettivo Mezzogiorno/ Riequilibrare il Paese, una battaglia in quattro atti


di Gianfranco Viesti
La proposta per il bilancio 2021-2027 dell’Unione Europea appena presentata dalla Commissione, che prevede tra l’altro un taglio di circa il 10% in termini reali delle politiche di coesione regionale, appare miope e pericolosa. Essa non va solo contro gli interessi del nostro Paese e soprattutto del Sud Italia che attende un urgente riequilibrio nella distribuzione delle risorse; ma anche contro quelli, di lungo periodo, dell’intero continente.

L’Unione Europea è stata per decenni un successo. Non ha garantito solo la pacifica convivenza; ma anche, attraverso l’integrazione dei suoi stati membri e delle loro regioni, una forte crescita economica, un miglioramento costante del benessere di tutti i suoi cittadini. Non a caso, il consenso degli europei per l’Unione è sempre stato fortissimo; essa ha rappresentato il faro del complesso e radicale processo di trasformazione dell’Europa Orientale dopo il comunismo.

Ma da un decennio non è più così. La crisi del debito sovrano, aggravata dall’estremismo delle norme dell’austerità definite da Bruxelles, ha colpito duramente il Sud Europa. Lo sappiamo bene in Italia: siamo ancora lontani dal reddito di dieci anni fa; il calo degli investimenti pubblici e delle spese per ricerca e istruzione rende più difficile il recupero di produttività e sviluppo, mentre la debolezza delle politiche di inclusione approfondisce le disparità sociali. 

Lo vediamo soprattutto nel nostro Sud che deve essere messo in grado, innanzi tutto da chi governerà il Paese, di produrre ricchezza e di poter concorrere alla crescita grazie alla riduzione degli scompensi prodotti dal trasferimento di ricchezza al Nord.

Ma tutta l’Europa è attraversata da nuove disuguaglianze di benessere, e di prospettive di benessere futuro: l’ascesa dei paesi emergenti e la riorganizzazione dell’industria nell’Europa centrale, intorno alla Germania, producono una polarizzazione geografica della crescita. Vaste aree ai confini orientali dell’Unione soffrono povertà e emigrazione; antiche regioni industriali in Belgio, nel Nord-Est della Francia, nel Nord della Spagna scivolano indietro; ci sono scricchiolii nello stesso Nord della Germania. La digitalizzazione dell’economia favorisce le aree urbane, concentrando imprese, capitali e giovani talenti nelle città più forti, aggravando cumulativamente le disparità con le aree rurali. Ma nelle stesse aree urbane si creano e si approfondiscono disuguaglianze sociali.

In sostanza, l’Europa non produce più benessere e speranza nel futuro per tutti i suoi cittadini, ma solo per alcuni di essi. Una parte crescente di europei vede, anche in conseguenza di questo, l’Unione più come il problema che come la soluzione. Gli elettori delle regioni perdenti, “che non contano”, votano per movimenti e partiti antieuropei o che comunque chiedono discontinuità rispetto ai vecchi schemi imposti da Bruxelles. Lo abbiamo appena visto il 4 marzo proprio nel nostro Mezzogiorno. 

Le politiche di coesione sono il principale strumento che l’Unione ha per contrastare questi fenomeni, per far crescere benessere e inclusione in tutte le sue regioni, per convincere gli scettici degli enormi vantaggi dello stare insieme, e dei rischi gravissimi dell’indebolimento della nostra casa comune. Le politiche di coesione sono il principale strumento comunitario per la crescita di tutte le regioni. Agendo in modo parzialmente decentrato e differenziato, essendo “place-based” cioè tarate sulle diverse caratteristiche dei territori, possono intervenire proprio sui fattori alla base dell’insufficiente sviluppo, e dell’incompleta inclusione sociale delle diverse aree.

Anche questo sappiamo bene in Italia. Sono molto importanti al Centro-Nord (cui è destinato circa un terzo delle risorse per l’Italia), specie per sostenere ricerca, innovazione, istruzione, formazione. Sono decisive soprattutto nel Mezzogiorno. Con il tracollo degli investimenti nazionali ordinari, e la quasi scomparsa delle politiche nazionali di sviluppo territoriale (Fondi Sviluppo e Coesione), i fondi regionali europei sono l’unico strumento per potenziare l’ancora assai carente infrastrutturazione materiale e immateriale, rafforzare le sue imprese, dare prospettive e speranze ai suoi cittadini più deboli. Contrastare gli evidenti, gravissimi, rischi di involuzione economico-sociale del Mezzogiorno. Priorità assoluta per il governo che verrà. 

La proposta della Commissione è solo il primo passo della trattativa, sempre lunga e complessa, che porterà al bilancio. Anche se assai indebolito dalle circostanze elettorali, il nostro paese deve essere allora capace di sviluppare in queste settimane una forte azione politica; sulla quale non è fortunatamente impossibile trovare ampie convergenze fra gli schieramenti.

Deve giocare un ruolo centrale nella discussione, con la forza e l’orgoglio di un grande paese fondatore. Una possibile agenda potrebbe ruotare intorno a quattro grandi obiettivi: 1) rivedere le poste di bilancio e 2) assicurarsi che i parametri per l’allocazione territoriale dei fondi disponibili (che sono in corso di revisione e saranno resi noti a fine mese) non penalizzino le regioni italiane. Poi, 3) rivedere alcune regole, affinché la Commissione sia più attenta alla concreta efficacia degli interventi che agli aspetti formali, che sia assicurata trasparenza e coinvolgimento dei cittadini. Infine, 4) eliminare le “condizionalità macroeconomiche” e in genere le norme che vorrebbero legare queste politiche al “Semestre europeo”, e cioè alle “riforme strutturali” uguali per tutti propugnate dai rigoristi a oltranza; al contrario, chiedere a gran voce che finalmente questi investimenti non siano presi in considerazione nel calcolo del deficit pubblico: quella “regola d’oro” indispensabile perché la stabilità si possa sposare davvero con la crescita. Poi occorrerà ripensare a fondo, dopo l’occasione buttata al vento nel 2014, come utilizzare al meglio queste risorse nel nostro paese, e particolarmente al Sud.

Un programma ambizioso. Ma forse un tema adatto per provare a spingere, giá da oggi, la politica italiana ad non occuparsi solo di se stessa ma anche del futuro dei cittadini.
 
Ultimo aggiornamento: Venerdì 4 Maggio 2018, 08:01
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