Draghi, la resa del non-politico: «Orgoglioso del lavoro in un momento difficile»

Dal giuramento del 13 febbraio 2021 in un Quirinale semideserto per Covid al colpo di mano della solita politichetta. L’amarezza in Cdm: «Ci ho messo il massimo impegno per proseguire nel cammino comune, non è bastato»

La resa del non-politico: «Orgoglioso del lavoro in un momento difficile»

di Mario Ajello

Non è il tipo che tira a campare, ed è quello - Mario Draghi, il premier dimissionario - che ha detto l’altro giorno: «Non si può governare ricevendo ultimatum».  E allora, non poteva finire diversamente da come è finita la parabola di un politico anomalo: ossia con la sua indisponibilità a farsi logorare. Poche parole secche, per descrivere l’addio davanti ai suoi ministri: «La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo». 

Agenza concreta

E basta questo per illustrare la morale della storia, che è quella di SuperMario rimasto vittima della politichetta. Di un premier che da capo della Bce riuscì a battere le pretese egemoniche e il rigorismo egoista della Germania e che invece si è dovuto arrendere non alla Merkel ma a Conte, a un liderino improvvisato e improvvido, alla nuova pochette di una partitinocrazia sprezzante degli interessi generali e a caccia di un altro giro improbabile sulle poltrone parlamentari e dei talk show.  Per un premier che ci aveva abituato a fare ciò che diceva di voler fare - dalla vaccinazione con il record europeo per numero di iniezioni anti-Covid alle riforme legate al Pnrr nonostante le complicazioni e le lungaggini derivanti dalla sua maggioranza, per non dire di come ha collocato al centro della Ue e dell’atlantismo l’Italia da quando è scoppiata la guerra - la constatazione della nuova impraticabilità del campo a causa delle mosse elettoralistiche, delle frustrazioni e dei complessi d’inferiorità di Conte e non solo del leader stellato, lo ha spinto per coerenza alla scelta di non andare avanti in una missione che gli è stata resa impossibile. Ha cercato e in parte ci è riuscito, in questo anno e mezzo di governo, a dare un senso pratico alla politica, a chiamarla alle sue responsabilità di guida per uscire dalla pandemia e per ricostruire il Paese impegnandosi in riforme e trasmettendo ai cittadini una concezione dell’impegno pubblico come servizio nazionale e non come manovra di Palazzo e sguardo breve da incasso nelle urne. 

 

DISCONTINUITÀ
Da questo punto di vista, è stato un uomo di rottura e di discontinuità Draghi. E se non ha vinto la sua sfida nel Palazzo ha sedimentato però, sperabilmente, un’altra idea della politica come qualità del fare e non del dire a vanvera e del parlarsi addosso. «Noi semplicemente facciamo le cose che sono utili», questo il suo motto. Ed e quello che lo descrive meglio: «Il governo è qui per cambiare le cose, non per stare fermo». Sembrano ovvietà e invece sono parole coraggiose. «Saper convergere insieme sulle decisioni e sulle scelte migliori»: questa la sua bussola, Conte l’ha voluta spaccare, Salvini non ci ha mai creduto e l’Italia di sempre ha mandato a monte un esperimento importante e una idea diversa di res publica. È stato un non-politico, almeno per curriculum, ma non un impolitico (chi ha studiato dai gesuiti ha nelle vene certe capacità) o un tecnico (non lo fu neppure da presidente Bce) il premier venuto dall’Europa. 


OPPORTUNITÀ MAL VISSUTA
S’è rivelato un’opportunità mal vissuta e il simbolo non del commissariamento dei partiti - che comunque se lo sarebbero meritato - ma dello sforzo di riconnetterli con il senso comune e con il buon senso. Forse gli italiani hanno capito il messaggio, mentre la politichetta lo ha rifiutato. Draghi ha sempre dichiarato lo stretto necessario, distinguendosi nell’evitare il bla bla. Sobrio nella comunicazione, attentissimo a demolire il mito italianissimo e provincialotto della cosiddetta dichiarazia. Basti vedere come ha gestito ieri la sua uscita di scena nelle Comunicazioni del Presidente del Consiglio in Cdm: «Voglio annunciarvi che questa sera rassegnerò le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica. In questi giorni da parte mia c’è stato il massimo impegno per proseguire nel cammino comune, anche cercando di venire incontro alle esigenze che mi sono state avanzate dalle forze politiche. Come è evidente dal dibattito e dal voto di oggi in Parlamento questo sforzo non è stato sufficiente. Dal mio discorso di insediamento in Parlamento ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto se ci fosse stata la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo su cui le forze politiche avevano votato la fiducia». 

LE CONDIZIONI
Queste condizioni - incalza Draghi - «oggi non ci sono più. Vi ringrazio per il vostro lavoro, i tanti risultati conseguiti. Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto, in un momento molto difficile, nell’interesse di tutti gli Italiani. Grazie».  Il metodo Draghi, l’agenda Draghi, stanno tutte in questa sintesi finale del governo dell’ex SuperMario. Ovvero, o ci si rende conto che l’Italia si può salvare e rilanciare tutti insieme oppure, continuando con le logiche di sempre, non si va da nessuna parte. Prendere o lasciare. Conte ha lasciato, ma tanti altri non vedevano l’ora di farlo desistere. E la loro paura atavica nei confronti di un politico diverso si era già manifestata nel momento in cui lo silurarono - aiutati dai suoi errori - nella corsa al Colle. Forse il governo Draghi è finito allora.  Eppure, al netto dei temibilissimi colpi di coda, Draghi ha affrontato il Covid con decisione e soprattutto ha rimesso mano al Pnrr italiano riuscendo a garantire, in cambio dell’inizio delle riforme, l’arrivo delle prime tranche degli oltre 200  miliardi destinati all’Italia. Recuperando un’immagine nazionale di affidabilità che è difficilissima da creare e molto facile da distruggere. 
 

DISCREZIONE OPEROSA
Il 13 febbraio 2021, Draghi giurò in un Quirinale semideserto per le regole dettate dalla necessità di contrastare il virus.

E fin da subito apparve chiaro il tratto distintivo del suo esecutivo: la discrezione operosa. È quella che ha cercato di difendere fino a ieri contro tutti e contro tutto. Tentando di essiccare una palude ma il fango ti avvolge e ti inghiotte. E se ne infischia - pur fingendo di applaudire a parole nazional-popolari del tipo: «Sono un nonno al servizio delle istituzioni» - dei buoni propositi. Come quello espresso il 19 marzo scorso da Draghi a proposito delle difficoltà economiche degli italiani: «Questo non è il momento di prendere, è il momento di dare». E via a una serie di provvedimenti per tagli fiscali, ristori alle aziende, sostegni al mondo del lavoro. Cose fatte e tante cose da fare. Se non fosse che il Palazzo - inteso come un ciuffo e come una pochette ma sotto sotto semi-unanime nella condanna dell’intruso - s’è preso la sua rivincita.


Ultimo aggiornamento: Venerdì 15 Luglio 2022, 11:58
© RIPRODUZIONE RISERVATA