Conte, quell’avvocato arcitaliano che sa mimetizzarsi

Conte, quell’avvocato arcitaliano che sa mimetizzarsi

di Mario Ajello
I gemelli sulla camicia, la pochette e una carica che è il massimo nell’Italia ancestrale e post moderna che avrebbe deliziato Vittorio De Sica: quella del Bisconte. Ed eccolo qui “Giuseppi”, come lo chiama Trump, una sorta di arci-italiano non alle vongole. Il quale ha portato la rispettabilità notabilare della provincia al centro del potere.

Grazie a un uso sapiente della passività attiva (“Io? Inutile che vi fate i selfie con me, perché tra poco tornerò ad essere un semplice professore d’università”, diceva l’altroieri) e della conciliazione del grillismo e della democristianeria, del nuovissimo e della tradizione. Guai insomma a banalizzare il fenomeno Conte, il Bisconte che dicendo “il mio non sarà un governo contro” azzera la politica contundente, propone un ritorno al futuro dell’Italia del proporzionale, azzera decenni di mal vissuto maggioritario, segnala il compromesso come virtù salvifica. E pone una questione a cui nessuno potrebbe dire di no. Chi mai potrebbe rifiutare quel “nuovo umanesimo” annunciato dal Bisconte tra le sue priorità?

La momentanea vittoria di Giuseppi, un po’ Zelig, un po’ Forrest Gump, un po’ il più professionista (medio) tra pseudo professionisti che si credono o sono spinti a credersi giganti (Salvini, per non dire di Di Maio), è il successo di chi si agita poco calcolando il fatto che se ti agiti troppo il destino non riesce a incontrarti. 

Mentre gli altri si consumano inseguendo la loro sorte, i Giuseppi se la fanno scivolare addosso. Fino a passare da renziani sconosciuti - questo è stato in una fase Conte - a dem di ritorno ma in una chiave comprensiva, visto che il genio italiano va per accumulazioni e non per sottrazioni, di tutta la propria biografia. Quella, nel caso di Conte, del moderato pugliese (la sinistra ora finge di crederlo un nuovo Aldo Moro ma anche la santificazione dell’avversario che serve deve aver un limite di decenza, già superata a suo tempo con Dini o con Fini) che si fa strada nel Palazzo, dell’avvocato del popolo che gioca ad essere il giacobino che non è per deliziare il pubblico del vaffa (lui che non ha mai detto una parolaccia in vita sua), del felpatone che grida con voce non gridata “sono orgoglioso di essere populista” ma quasi contemporaneamente bacia la mano al simbolo dell’anti-populismo merkeliano (frau Angela). E diventa il garante dell’establishment europeista.

Essere Bisconte - come Essere John Malkovic, tanto per citare il titolo proverbiale di un gran film - non è dunque un colpo di fortuna. Ma il riassunto di un carattere nazionale. Se Berlusconi è stato a suo modo la biografia della nazione, a livello minore, più improvvisato, magari transeunte ma forse molto aderente alle aspettative generali anche Conte lo è. Nella formula del “nuovo umanesimo”, proposto come canone dell’Italia in giallo-rosé, c’è il condensato di Giuseppi il Camaleonte (non più quello che nel 2018 si scagliava contro la “finta solidarietà” e sbandierava con Salvini il cartello in omaggio al Decreto Salvini ma quello che si augura “un Paese più solidale e più inclusivo”) e non è detto che dopo il muscolarismo salvinista non faccia breccia questo approccio più morbido e apparentemente meno ideologico. L’estremo capolavoro del Bisconte, l’uomo delle mezze misure, il talento dell’identità così poco esibita che è più semplice renderla cangiante, è quello di essere in quota di un partito, M5S, essendo in tutto però l’incarnazione (più Letta o Gentiloni?) del partito alleato e concorrente, cioè il Pd.
Ma con un quid in più: sapienza pop neo-vetero democristiana in un involucro benecomunista, eco-ambientalista, tutto inclusione sociale più Grillo e Greta. E il Pianeta è più appealing del Nazareno.

Ecco allora una storia italiana, e assai meridionale per la biografia del protagonista, al netto della “corda pazza” che sarebbe piaciuta (quanto ci manca) a Leonardo Sciascia. È tutto molto studiato nel miracolo nient’affatto miracoloso del Bisconte. Il quale gode, ma per meriti sul campo e non per caso, di quel premio in Italia assai ricorrente che potremmo chiamare il Premio Badoglio (il trofeo Talleyrand sarebbe ancora più sproporzionato) e che viene assegnato allo sconfitto (il governo gialloverde è stato un mezzo disastro) capace di garantire la nuova fase. Chi si sfila dalla compagine a cui apparteneva (Giuseppi al contrario di Badoglio ne è stato addirittura il titolare) nel Paese allergico ai veri scossoni può diventare il traghettatore che serve. E la speranza è che serva davvero.

Ultimo aggiornamento: Venerdì 30 Agosto 2019, 00:23
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