Carlo Calenda: «Ecco il mio partito-scossa per un Paese che non cresce più»

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di Mario Ajello
Il nome è Azione. La ragione sociale è quella di una «democrazia liberal-progressista». Il leader è Carlo Calenda. Oggi il lancio del nuovo movimento alla sala della Stampa estera e sabato 30 al teatro Eliseo.

Chiamare Azione la vostra creatura sembra un atto futurista. Siete contro l'Italia molle e indecisa?
«Siamo contro i riformisti che si sono rammolliti. E che si aggregano ai populisti e ai sovranisti. Questo vale sia per Pd e Italia Viva, che si sono messi al seguito dei 5 stelle, sia per Forza Italia ormai al rimorchio di Salvini. La subalternità dei presunti riformisti è uno dei problemi che affossano il nostro Paese. I sostenitori della democrazia liberale devono essere tosti e coraggiosi».

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E allora voi puntate al centro, anche se è affollato?
«Il centro non esiste nella topografia politica. E neppure userei le categorie moderatismo e moderati. Il discorso è un altro. C'è spazio per un'Italia che lavora, che fatica, che studia. E non ne può più degli scontri inconcludenti tra tifoserie e degli slogan vuoti di contenuto. Un'Italia stanca di scegliere il male minore. Una logica che ci sta portando nel baratro».

Ma lei ha sondaggi che la spingono a creare questo partito da rivoluzione liberale - se vogliamo chiamarla così, ma altre sono fallite - e da salva Italia?
«Ancora non abbiamo lanciato il simbolo e il manifesto programmatico del movimento e quindi non ho sondaggi. Abbiamo fatto però analisi preliminari che dicono: la maggior parte delle persone vota perché non vuole che arrivino quelli della parte opposta. Nessuno vota perché è convinto che i suoi problemi verranno risolti dalle persone che si è deciso di votare. E così non si può andare avanti».

Ma è sicuro che serva l'ennesimo partito personale?
«Macché personale! Nel nostro movimento ci sono imprenditori: da Alberto Baban, ex presidente dei piccoli industriali, a Cimmino di Yamamay; professionisti e professori come Walter Ricciardi, massimo esperto di sanità, e Stefano Allevi che è un grande studioso dell'immigrazione; amministratori locali capaci come Francesco Italia, sindaco di Siracusa, o il sindaco di Cinisi, Palazzolo, o Valentina Grippo, consigliere regionale nel Lazio; giovani che hanno animato liste civiche in tutta l'Italia e via così. Ci saranno alcuni esponenti di Più Europa, come il generale Camporini, l'ex presidente della commissione Affari Costituzionali, Mazziotti, e persone come la storica Emma Fattorini che pur stando ancora nella direzione del Pd ci darà una mano insieme a tanti altri. Lei lo chiama partito personale e invece è un movimento di mobilitazione. Possiamo già contare sulla rete di Siamo Europei e in più: 200 comitati e 150mila iscritti».

Lei però ha appiccicata addosso l'etichetta di elitista. Riuscirà finalmente a togliersela?
«Guardi, di elitismo non c'è nulla di nulla nel nostro progetto. Lo spendersi per il proprio Paese è quanto di meno elitario possa esistere. Sono più élite io, che ho rinunciato a un lavoro meglio pagato presentandomi ogni mattina al mio tavolo di lavoro al ministero, oppure Di Maio e Salvini che fuori dalla politica non hanno mai combinato niente e al ministero non ci andavano? Il nostro obiettivo è quello di dare una scossa generale, di tipo costruttivo e non distruttivo. E cominceremo con la questione della sanità che è la prima emergenza: stiamo perdendo il sistema sanitario nazionale».

Ma non è che vuole fare una sorta di Forza Italia 2.0? Spesso qui le scosse abortiscono...
«La nostra, ispirata anche al liberalismo sociale di Sturzo, vuole arrivare a creare uno Stato forte ma solo nel suo perimetro e cittadini liberi di svolgere le loro attività senza avere lo Stato ad asfissiarle».
Ma quante volte questo tipo di riformismo o di rivoluzione è affogato nell'immobilismo casereccio?
«Il problema è nella classe dirigente. Dev'essere capace di gestire. Gestione è una parola nobile. E' quella del buon governo. E questa è la parola rimasta assente finora. Perciò ci siamo ritrovati un Paese di riforme mancate e di rivoluzioni altrettanto mancate».

Nel manifesto di Azione, il rafforzamento dello Stato è un punto chiave. In che senso?
«Nel senso che ci sono tre priorità a cui l'autorità pubblica centrale deve lavorare con estrema determinazione: sanità, scuola e sicurezza. Lo Stato deve investire soldi su questo e non per nazionalizzare Ilva e Alitalia. Magari lasciando a metà il Mose».

Che idea dell'industria avete? Esistono possibilità di superare la retorica un po' farlocca, ma rasserenante, del piccolo è bello?
«Piccolo è bello, se può crescere. Non conosco imprenditori che non vogliano diventare più grandi. Quel che serve è una politica industriale che torni centrale in Italia e in Europa. Il compito di una classe dirigente consapevole e innovativa è quello di lavorare per un industrialismo moderno, che contempli l'aspetto ambientale come grande opportunità di crescita e non come alibi per innescare la decrescita infelice».

Anche Renzi e perfino Salvini dicono cose così. Perché voi dovreste essere più credibili di loro?
«Azione è fatta da persone che hanno dimostrato capacità di gestione. E soprattutto, sono state coerenti. Fanno quello che dicono, e non il contrario. Come spieghiamo nel manifesto di Azione e nel video di presentazione che abbiamo appena mandato su tutte le piattaforme, la parola è la politica. Se la parola non vale, la politica non vale. La politica italiana celebra l'incoerenza come una virtù degli statisti. Invece è solo il salvagente degli sconfitti».

Lei, in buona compagnia, non fa che criticare la manovra del governo grillo-dem. Ma qual è la visione politico-economica alternativa?
«Tre i pilastri su cui noi la basiamo. Primo: gli investimenti. Vanno incentivati in modo semplice, come ho fatto con Impresa 4.0. Secondo: proteggere i lavoratori quando la globalizzazione non funziona e li espone ingiustamente. Tre: liberare le energie di crescita e di sviluppo, attraverso il ritiro dello Stato dai settori economici che non gli competono. Per esempio: non ha alcun senso avere municipalizzate, penso anzitutto a quelle di Roma, assolutamente inefficienti, perché gestite solo come un bacino elettorale».

A proposito di Roma. Se dovesse crearsi questa situazione: la formazione di una candidatura per il Campidoglio larga, civica, autonoma e indipendente dai partiti, ma magari con un sostegno esterno del Pd, lei sarebbe disponibile a rappresentare questa novità?
«No, non accetterei proprio. La mia è una sfida di tipo solo nazionale. Roma si salva se c'è un governo centrale composto da persone capaci, altrimenti il rischio è che la Capitale diventi il prossimo caso Ilva. Le condizioni purtroppo ci sono tutte. Adesso bisogna assolutamente commissariare Roma».

E il Sud?
«Ha bisogno di più Stato. Nel senso che al Mezzogiorno occorre una presenza dello Stato centrale, nei settori che gli competono, molto più diretta. Va detto chiaramente: dove il federalismo non ha funzionato affatto è nel Sud e questo a causa della cattiva qualità della classe dirigente di quelle parti d'Italia. Azione sarà molto attenta alla selezione della classe dirigente. Perché se cambiamo i nomi dei partiti ma le persone restano sempre le stesse, nulla cambia».

Ora lei dirà: più infrastrutture per salvare il Sud. Ma se questo è un Paese dove tutto frana e nulla va veloce....
«Io dico che in Italia le infrastrutture non si faranno mai, pur se le riempiamo di soldi, se non cambiamo mentalità in questo modo: le procedure devono essere semplici e non dobbiamo pensare che con procedure complicate si risolve il problema della corruzione. Si deve presumere la correttezza dei comportamenti e punire duramente chi delinque».

Può fornire qualche percentuale a cui aspira la vostra Azione?
«Non do numeri al lotto. Se il nostro movimento prima delle elezioni non avrà raggiunto percentuali significative, vicine alla doppia cifra, non lo presenteremo alle elezioni. Perché non vogliamo fare un altro partitino».

Partitino o partitone, perché lo ha fatto?
«Perché il Pd, come era evidente dall'inizio, si sarebbe grillizzato. E si vede sul caso Ilva, in cui si sono messi nelle mani di Boccia e di Emiliano, o sulla giustizia con il provvedimento sulla prescrizione. E potrei continuare a lungo».

Ma si vota o non si vota?
«Non lo so. So che preferirei votare con un sistema maggioritario. Il nostro obiettivo è correre aggregando le forze in un grande fronte repubblicano, che si opponga a sovranisti e populisti».
 
Ultimo aggiornamento: Giovedì 21 Novembre 2019, 18:24
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