Cassese: «Grave l'ennesimo varo salvo intese, non si decide più in Consiglio ma nei partiti»

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di Diodato Pirone
Sabino Cassese, ex giudice costituzionale, ex ministro, fra i massimi esperti di pubblica amministrazione e autore di un bel libro in uscita in questi giorni (Il Buon Governo, l'età dei doveri, edito da Mondadori) è un acuto osservatore non solo dei contenuti ma anche dello stile degli amministratori italiani e non solo.

Professor Cassese, anche l'ultimo decreto del governo Conte/2 è stato approvato con la formula salvo intese sia pure per aspetti tecnici. Che ne pensa?
«Gli atti normativi dovrebbero esser approvati dal Consiglio dei ministri, cioè dal collegio. Ma oramai il collegio dei ministri è divenuto un organo di ratifica di decisioni prese altrove. Quindi, non è grave solo il salvo intese, che vuol dire che non c'è accordo, che si raggiungerà successivamente, in negoziati tra le forze politiche, ma è grave anche che nel Consiglio dei ministri non vengano veramente discussi i testi normativi, che sono preparati altrove, negli incontri tra rappresentanti dei partiti».

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Per onestà intellettuale occorre dire che questo escamotage è stato usato spessissimo da tutti i governi dell'ultimo decennio, forse solo il governo Monti non ne fece uso. Sarà il caso di pensare a qualche intervento?
«Sarebbe necessario rispettare le regole, quindi riconoscere la competenza del Consiglio dei ministri come collegio. Il compito spetta a chi lo presiede e a chi ne redige il verbale».

Il problema è figlio più di contrasti politici o di carenze e sciatterie tecnico-giuridiche?
«Di ambedue, alla pari. Se vi fosse davvero una centrale di normazione a Palazzo Chigi, che individuasse le politiche pubbliche e le trasformasse in norme, su indicazione del corpo politico, e se il corpo politico sapesse programmare la sua azione, in modo da arrivare al Consiglio dei ministri con idee e accordi chiari, il risultato sarebbe ben altro».

L'abuso del salvo intese si aggiunge a quello dei decreti legge e a quello, secondo alcune tesi, dei Dcpm. Cosa c'è di fondo che non funziona?
«L'abdicazione del Parlamento, che non svolge più l'azione legislativa, ma si limita a legiferare negli interstizi. Ormai è divenuta una abitudine la seguente. Il governo approva decreti legge omnibus, cioè su i più svariati argomenti. Il Parlamento li converte in legge aggiungendovi i propri desiderata, a spese del Tesoro. Basta vedere quel che è successo e sta succedendo al decreto Rilancio. Era di 266 articoli. Si è caricato, nel passaggio parlamentare, di molti altri articoli (l'ultima versione occupava circa 500 pagine degli atti parlamentari). E poi si auspica la razionalizzazione legislativa e la semplificazione!».

Lei è molto critico sul decreto semplificazioni.  Perché?
«Promette molto e mantiene poco».

Lei è il capofila dei semplificatori italiani. Nel 93 iniziò a sforbiciare come ministro del governo Ciampi. Perché è così difficile in Italia semplificare davvero?
«Non sono il capofila. Prima di me vengono molti altri. E parecchi altri sono venuti dopo. Si cerca di semplificare da un secolo. La difficoltà sta nella scarsa conoscenza che si ha dei nodi da semplificare, nella resistenza degli organi che hanno costruito i propri poteri nella complicazione e negli interessi sociali cresciuti dal e con il groviglio di poteri e procedure. Ci vuole pazienza e bisogna sciogliere i fili uno per uno. Come ministro, in un anno, sono riuscito a semplificare un centinaio di procedure. Ma queste sono circa 5mila. Aggiunga, che mentre si semplifica (poco) si complica (molto). Quindi, il saldo sarà sempre negativo, finchè l'azione di semplificazione non supererà quella di complicazione. Esempio concreto: i decreti Cura Italia, Liquidità e Rilancio insieme hanno mezzo migliaio di articoli molto complicati. Il decreto Semplificazione, ne ha 48. Vede la differenza?».
 

Ultimo aggiornamento: Mercoledì 8 Luglio 2020, 10:06
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