Robin Williams, domani avrebbe compiuto 70 anni: il talento, la depressione e la paura di essere dimenticato

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di Ilaria Ravarino

Domani avrebbe spento 70 candeline, un traguardo che a Hollywood - almeno per gli uomini - non implica, né invita, al pensionamento. Eppure Robin Williams - coetaneo di Richard Gere, tra i pochi con cui non lavorò mai, e ben più giovane dell’eterno rivale Dustin Hoffman (13 anni in meno), con cui si sfidò a distanza nel duello en travesti Tootsie/Mrs Doubtfire - a quel giro di boa non è mai arrivato. Colpa di una malattia, la “demenza a corpi di Levy”, che aveva letteralmente «occupato ogni neurone del suo cervello», danneggiandolo fisicamente e psicologicamente, come racconta la terza moglie Susan Schneider nel documentario Robin’s Wish di Taylor Norwood, distribuito da Amazon nel 2020. Ma soprattutto colpa delle depressione, un mostro nutrito dalle dipendenze e ingigantito dall’ingovernabilità del corpo, diventata evidente sul set del su ultimo film, Una notte al museo: il segreto del faraone. «Sul set fu chiaro a tutti che qualcosa in lui non andava», ricorda Shawn Levy, che lo diresse per l’ultima volta. Poco dopo le riprese, nella notte dell’11 agosto 2014, Williams decise di terminare la propria vita con un gesto estremo, impiccandosi nella sua villa californiana di Paradise Cay.

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Robin Williams, sette anni fa la morte

Scomparso sette anni fa, all’alba dell’espansione di Netflix in Europa, Williams non ha potuto vivere in pieno né l’esaltante stagione delle piattaforme (che oggi si contendono i suoi film: Mrs. Doubtfire su Disney +, L’attimo fuggente su Amazon, Hook - Capitan Uncino su Netflix), né il rigurgito del politicamente corretto hollywoodiano, da cui probabilmente non sarebbe uscito illeso. «Mi ha fatto di tutto. Mi ha spogliata, palpeggiata, afferrata e mi si è persino strusciato addosso - dice l’attrice Pam Dawber in Robin - The definitive biography of Robin Williams, ennesima biografia sull’attore uscita nel 2018 - penso che lo abbia fatto anche con altre persone. Ma è stato divertente. Dopotutto erano gli anni Settanta».

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Un solo premio Oscar in carriera

Un solo Oscar in carriera da non protagonista (per Will Hunting - Genio ribelle di Gus Van Sant), altri tre sfiorati fra cui quello da protagonista nel 1990 per L’attimo fuggente di Peter Weir, Williams a Hollywood fu l’anello di congiunzione tra la generazione dei “belli” (Richard Gere, Harrison Ford, Mel Gibson) e quella dei bravi (Al Pacino, Robert De Niro, Dustin Hoffman), condannato a un ruolo di outsider di cui soffrì più di quanto fosse disposto ad ammettere. Il suo trampolino, tra il 1978 e il 1982, fu la tv: la serie Mork & Mindy - trasmessa in Italia su Rai 2 e Italia 1 - in cui recitava accanto a Pam Dawber nel ruolo di un alieno vagamente disadattato finito per caso sul pianeta Terra.

Quel telefilm ne consacrò il talento comico, che Williams continuò a coltivare sui palchi dell’allora nascente stand-up comedy.

Anni selvaggi (raccontati nel libro John Belushi - Chi tocca muore di Bob Woodward), in cui il bungalow dello Chateau Marmont di John Belushi divenne l’ultima tappa delle scorribande notturne di giovani rampolli di Hollywood (Williams, ma anche Harry Dean Stanton e Robert De Niro), sconvolti da un mix di fama, alcool e cocaina sui marciapiedi della Sunset Strip. Per tornare in carreggiata a Williams non bastò essere stato una delle ultime persone a fare visita a Belushi, in cerca di cocaina, la notte della sua morte nel marzo 1982: per rinunciare ai vizi servì la nascita del primo figlio, Zachary, nato nel 1983 dalla sua relazione con la ballerina Valerie Velardi. La sobrietà lo avrebbe accompagnato anche negli anni successivi, quando il ruolo dell’aviatore Adrian Cronauer in Good Morning Vietnam di Barry Levinson gli fruttò una prima nomination all’Oscar nel 1988, cui seguirono quella per L’Attimo fuggente e La Leggenda del Re Pescatore di Terry Gilliam. Il successo popolare arrivò nel 1993 con Mrs Doubfire - Mammo per sempre di Chris Columbus, allora tra i nomi più caldi di Hollywood dopo il successo di Mamma ho perso l’aereo, con cui sfidava, a distanza di dieci anni, il travestimento di Hoffman in Tootsie. L’Oscar arrivò finalmente nel 1998, ma proprio qui, nel punto più alto della sua carriera, cominciò la discesa.

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L'ossessione del lavoro per la paura di essere dimenticato

Ossessionato dal lavoro («Ho fatto otto film in due anni - raccontava - per la paura che, fermandomi, la gente mi avrebbe dimenticato»), e turbato dalla morte dell’amico Christopher Reed, conosciuto sui banchi della prestigiosa scuola Julliard e mai abbandonato dopo l’incidente che lo aveva reso paraplegico, dopo vent’anni di astinenza Williams ricominciò a bere: «Non la cocaina - disse poi - non volevo tornare ad essere un paranoico impotente che parla di cose inutili di notte e di mattina di sveglia come un vampiro». Il punto più basso lo toccò a un party al festival di Cannes, organizzato da Sharon Stone, da cui uscì incapace di reggersi in piedi, davanti a un muro di paparazzi: nel 2006 la riabilitazione, quattro anni dopo il divorzio da Marsha Garces dopo 21 anni e due figli. Nel 2013 Williams era già in cura per lo stress e per un tremore insistente alla mano sinistra - prima avvisaglia della malattia - mentre i debiti accumulati per i divorzi, costati 130 milioni di dollari, cominciavano a prosciugare le sue riserve economiche. La cancellazione della sua serie tv The Crazy Ones, e il progresso implacabile della malattia (scambiata inizialmente per Parkinson) fecero il resto, minando definitivamente la salute mentale di uno dei talenti più grandi, e incompresi, di Hollywood.


Ultimo aggiornamento: Martedì 20 Luglio 2021, 19:39
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