Carlo Verdone: «Gigi, il simbolo della Roma buona che non c’è più»

Video

di Gloria Satta

«Con la scomparsa di Gigi Proietti siamo tutti più soli, e noi romani ancora di più», sospira Carlo Verdone, 70 anni tra due settimane, che del grande attore era buon amico e ha condiviso con lui il ruolo di icona amatissima dello spettacolo ed espressione autorevole della nostra città. 


Cosa ci mancherà ora che Proietti ci ha lasciati? 
«Oltre al suo talento smisurato che è stato patrimonio di tutti, noi romani perdiamo un simbolo rassicurante della nostra identità. Quell’identità che la Capitale ha smarrito da molto tempo: ma Gigi, attraverso la sua arte, riusciva ad illuderci che esistesse ancora. E oggi, nel dolore per la sua morte, dobbiamo ringraziarlo anche per questo».

LEGGI ANCHE --> Proietti, Alessandro Gassmann: era il mio secondo papà. Il cinema lo ha snobbato e ha perso molto


Che tipo di Roma ha incarnato, il grande Gigi? 
«Quella buona, conciliante e accogliente di una volta. Proietti ha portato in primo piano la saggezza, l’ironia e la benevolenza della gente semplice. È stato un attentissimo osservatore della realtà che ha poi trasfigurato alla luce della sua tecnica straordinaria e dei suoi imbattibili tempi scenici». 


Che differenza c’era con l’arte di Alberto Sordi, altro mostro sacro che ha reso protagonista il popolo? 
«Alberto ha incarnato se stesso. I suoi personaggi erano sempre riconducibili alla sua potentissima identità fino a confondersi con la sua stessa persona. Ha creato una maschera originale e portato in scena tanti tipi cinici, cialtroni, perfino malvagi che tuttavia non hanno offuscato l’amore della gente per il grande attore. Proietti, invece, non ha mai interpretato dei ruoli meschini o antipatici e il pubblico gli voleva bene anche per questo. Era come un mascherone dell’antica Roma, un emblema all’entrata di un anfiteatro. E starlo ad ascoltare era piacevolissimo». 


Ma Sordi cosa pensava di lui? 
«Era convinto che Proietti fosse il più grande di tutti, senza alcun dubbio. Me lo disse la prima volta nel 1998, una sera che era a cena con me e mio padre a casa nostra. Alberto ammirava la sua potenza facciale e la presenza scenica che nessuno avrebbe mai eguagliato.

Sono sempre stato d’accordo con lui. Lo show A me gli occhi please l’avrò visto cinque o sei volte rimanendo sempre incantato. Gigi era un discepolo di Ettore Petrolini, ma ha finito per superare il maestro». 


Vi frequentavate? 
«Si, eravamo amici e ci vedevamo anche per andare allo stadio per la nostra Roma. L’ultima volta è stato un paio di mesi fa, da amici comuni. Proietti era piacevole, divertente e concludeva sempre la serata con un paio di barzellette. Io non amo le storielle comiche, ma raccontate da lui diventavano irresistibili». 


Quali sono stati gli altri punti di forza della sua arte? 
«L’autorevolezza, l’umiltà e soprattutto una straordinaria cultura. La sua recitazione affondava le radici nella conoscenza profonda della storia, della letteratura, dell’arte. E confluiva nell’uso mirabile del romanesco. Ma amavo un altro aspetto della sua personalità». 


Quale? 
«La generosità. Gigi è stato un mecenate. Ha scoperto e promosso, attraverso la sua scuola, tanti nuovi talenti che poi hanno fatto un ottimo lavoro e si sono affermati. Era un mostro sacro ma altruista, sempre pronto a sostenere i giovani. L’invidia non faceva parte del suo dna. Era una bestia rara nell’ambiente dello spettacolo dominato dalla competizione, dalla filosofia del “mors tua vita mea”».


Non avete mai pensato di lavorare insieme?
«Tante volte. Gigi mi chiamava e mi proponeva di prendere un caffè insieme perché aveva “una mezza idea” da sottopormi. Ma poi, presi dai reciproci impegni, quel caffè non siamo riusciti a prenderlo mai. E mi dispiace tanto. Su un argomento però Proietti è sempre stato esplicito».


Quale?
«Cercava di convincermi a tornare in teatro. Ma io non sentivo ragioni. In palcoscenico avevo debuttato negli anni Settanta, interpretando fino a 30-40 ruoli ogni sera. Pubblico e critica mi apprezzavano, ma per me si trattava di uno stress insopportabile, soprattutto all’idea che ogni giorno dovessi essere all’altezza del precedente... Alla fine di ogni replica cadevo in depressione. E così, una volta avuto successo nel cinema, abbandonai il teatro. Ma Gigi tornava a insistere perché tornassi in scena. Forse, alla fine, mi avrebbe convinto». 
 


Ultimo aggiornamento: Martedì 3 Novembre 2020, 07:20
© RIPRODUZIONE RISERVATA