Se ne è andato martedì scorso a 82 anni, ucciso dal Covid. La sua è stata una morte solitaria nel letto di una casa di riposo di Milano, ma per l’ultimo saluto domani saranno in tanti: i tre figli, i dieci nipoti, tutti i suoi allievi dell’Associazione italiana frisbee di cui era presidente e fondatore. Valentino De Chiara nel ‘72 è partito per gli Usa, si è innamorato di quel disco volante ed è tornato con la pazza idea di trasformarlo anche da noi in disciplina sportiva. E ce l’ha fatta: il suo terzetto di atleti, nel 2007, ha strappato agli imbattuti americani il titolo mondiale di freestyle.
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Il papà del frisbee vittima dell’epidemia è stato un pioniere, un entusiasta, soprattutto «una persona molto generosa, sempre aperto verso gli altri, disponibile ad aiutare e accogliere. Lui stava con gli ultimi», è il ricordo del figlio Ivan.
Dal sogno americano a primo giocatore in Italia, con centinaia di esibizioni in quarant’anni di sport, poi allenatore e anima del “Frisbee temple”, un centro immerso nel verde del parco della Barona con il primo museo dedicato alle evoluzioni con il disco, un’area per gli allenamenti e spazi per lo sport e la cultura. «D’estate organizzava campi gratuiti per i ragazzi di periferia, che non possono andare in vacanza nemmeno qualche giorno ad agosto», ricorda Francesco Santolin, trent’anni, atleta e ora alla guida dell’associazione.
Pagava tutto di tasca sua e i figli lo aiutavano: «Io gli davo una mano negli allenamenti, le mie sorelle si occupavano del pranzo», dice Ivan.
«VOGLIO ANDARE IN SVIZZERA»
Originario di Salerno, nato e cresciuto in una casa davanti al mare, quando era adolescente Valentino è arrivato a Milano con la mamma, il papà ferroviere trasferito al nord e i suoi nove fratelli. Ha cominciato facendo le consegne, ha aperto un negozio di articoli sportivi, ha inventato e brevettato l’amaca che si appende a un albero solo. Mille interessi, un vulcano, l’unica passione però è rimasta quella del Frisbee.
Prima da atleta, quindi da allenatore e guida dei ragazzi di periferia. Fino a due anni fa, quando l’ha colpito un’ischemia. «Essere costretto in un letto per lui era una sofferenza - dice il figlio - Ci ripeteva: “Portatemi in Svizzera, non ce la faccio più, voglio morire”». E invece ha tirato fuori la grinta, è passato attraverso la riabilitazione, si è rimesso in sesto. Finché il Covid non se l’è portato via. Per tutti l’ultimo ricordo è la festa per la sua incoronazione negli Usa, due anni fa, con gare, birra e salsicce al “Frisbee temple”. Come piaceva a lui, nel suo luogo del cuore.
Ultimo aggiornamento: Venerdì 20 Novembre 2020, 13:05
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