«Internet come l'eroina ora ci serve Ossigeno»

«Internet come l'eroina ora ci serve Ossigeno»
segue dalla prima
Agnelli, tra i tappeti del Lanificio di Pietralata, sembra muoversi come fosse a casa sua.
«La mano totalmente libera lasciatami da Raitre, quello fa tanto. Non volevamo fare un programma di nicchia, anche se per certi aspetti finisce per esserlo: vogliamo essere chiari, nei messaggi. Quando ricordiamo la responsabilità sociale dell'artista e della cultura. E il fatto che un musicista abbia un ruolo preciso nella società. Non vogliamo essere masturbatori nel cercare una nicchia in cui dire quello che ci pare. Cerchiamo argomenti atipici per la tv, profondi: vogliamo comunicare a tutti, con chiarezza, senza banalità. Poi il passaparola coinvolgerà più persone. C'è poco spettacolo e tanta sostanza. Noi facciamo tv non urlata, ma forte».
Con gli anni, lei dice di sé, sono diventato pignolo, pretendo serietà.
«Viviamo in un Paese dove solo i comici possono prendere posizioni pesanti, uno ha anche fondato un partito. Ma secondo me non c'è niente da ridere qui. Se ridi sopra tutto non vale più niente. Ho bisogno di un posto più serio, di prendere sul serio le cose che si fanno. Un paese più calvinista. Non c'è niente di male nella serietà, specie nel lavoro, nella politica».
Agnelli da opinionista prende l'approccio dell'intervistatore.
«Mi piace Gianni Minà, vedi, aveva una visione del mondo quando faceva le interviste. E quella visione oggi è ossigeno»
Ossigeno: il problema è quello di respirare a polmoni aperti, oggi.
«Il respiro cura. Quel respiro pieno, a livello culturale, è una proposta. Noi pensavamo che questa cosa, Ossigeno, manca».
Per la prima volta c'è tutto Manuel Agnelli in questo programma tv, si tocca il profondo.
«È il mio programma, qui prendo posizione oltre a metterci la faccia. L'artista è un intellettuale, ha il diritto, ma soprattutto il dovere di prendere posizione. Non parlo di medicina o oroscopo, non voglio fare il ciarlatano. E nelle interviste del programma non facciamo battaglie, non mi interessa il contraddittorio: mi interessa imparare e sentire la loro sincerità. Qui ci sforziamo, nelle interviste, di non pensare mai alla domanda successiva, ma ascoltare Santamaria o Paolo Giordano, Ghemon o Bonolis, Stewart Copeland o Joan as Police woman ti fa crescere».
Coi giornalisti che rapporto ha?
«Mi piace un giornalismo non autoreferenziale, quello che non piega ai propri fini la cosa che descrive. Ma occhio ai titoli: certe volte sono terribili. Mi piace intervistare, perché resto un musicista, ma pronto a vampirizzare la vita».
A X Factor fa il maieuta: tira fuori da quelli come Maneskin quello che a volte non sanno nemmeno di avere.
«Un ruolo che mi è sempre piaciuto svolgere, nella band, coi produttori».
La band... Gli Afterhours.
«Per ultraquarantenni sembra improponibile come formula creativa. Ognuno è cresciuto, sembra quasi grottesco fare cose che facevi da ragazzino. E invece resta un nucleo creativo».
E litigate ancora, come fanno tutte le band?
«Ho fatto anni di boxe francese, mi aiutava a controllare la violenza interiore pazzesca che avevo. Poi qualche volta ci incazziamo di brutto, ancora».
Nella prima puntata parlando con Claudio Santamaria del Vietnam del Cacciatore ha detto che il Vietnam della sua generazione è stata la droga. Per le nuove generazioni, qual è il Vietnam?
«Internet. Allora l'eroina non entrò nelle città a caso. Ha annullato la protesta giovanile, ti illudeva proponendo di abbattere confini creativi, ti doveva regalare la libertà interiore. E invece ci ha annullato come generazione. Se penso che ancora ora non sia un caso che una grande idea come internet stia facendo la stessa cosa, sono così lontano dalla realtà. Ci si è presentato come ipotesi di democrazia assoluta, orizzontale. E invece annulla i contatti reali tra esseri umani, non ci fa più uscire nelle strade, facciamo opinione ma non siamo fisicamente pericolosi. E ci rende tracciabili e condizionabili. L'informazione che passa su, poi, fa spesso schifo. Così come la droga in sè, internet non è il male in sè: è come lo usiamo, diventando dipendenti. Togliendo i filtri ha inquinato, non reso liberi. C'è un piano? Non posso dirlo, ma la dipendenza viene alimentata. E nella politica lo stiamo scoprendo».
Ha portato Joan as Police Woman in Rai.
«Quella è una cosa unica. Come certa tv musicale degli anni Settanta o Mister Fantasy. Facciamo un programma di carattere, non unplugged: ci sono tanti numeri uno che prendono niente per fare una cosa bella. Se ci leggete la cultura musicale di base di Lou Reed è giusto. Le radici sono lì».
Negli anni Novanta Raitre portava Baricco a raccontarci libri e l'opera da dentro. Ora Agnelli lo fa col rock.
«Non mi dispiace la citazione, ma Ossigeno lo facciamo adesso. Non sono gli anni Novanta: l'idea è quella di un umanesimo diverso. Di quelli che guardano alla post-digitalizzazione. Che reagiscono. Senza malinconia, dimostrando di saper fare qualità e cultura anche in tv. Costando per cinque puntate un terzo di una di X Factor».
Ha suonato Chopin: che Agnelli è quello?
«E' il momento autistico, di isolamento per rimettere in ordine il caos che fa la mia violenza artistica interiore. Un caos che stiamo cercando anche con gli Afterhours ultimamente».
Un caotico nella vita era Caravaggio, cui ha dato la voce al cinema.
«Nella terza puntata di Ossigeno sentirete Strinati parlare di etica dell'arte, di coerenza. E questo nella musica italiana, dopo 50 anni di politicizzazione del messaggio artistico ci ha chiuso. Caravaggio dipingeva per i Papi ma era più libero di noi. Faceva gesti necessari di rottura, quello che l'artista intellettuale oggi deve tornare a fare».
Domenica si vota.
«Ed è stata una campagna elettorale che ha ancor più allontanato dalla politica. Scelgono di urlarsi addosso per allontanarci. Non vedo cambiamenti all'orizzonte. E se mi chiede come la vedo, le dico: la vedo male».

Ultimo aggiornamento: Mercoledì 28 Febbraio 2018, 05:01
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