Roberto Berardi libero: "921 giorni in cella, torturato e senza medicine per la malaria" -Foto esclusive

Roberto Berardi libero: "921 giorni in cella, torturato e senza medicine per la malaria"

di Bianca Francavilla
«Ho passato 921 giorni rinchiuso in una cella di 12 metri quadri, torturato, costretto a stare a luce spenta, in isolamento, senza medicine per curare la malaria né una luce alla quale aggrapparmi». Queste le parole di Roberto Berardi, l’imprenditore di Latina atterrato al Terminal T3 dell’aeroporto di Fiumicino dopo due anni e cinque mesi di reclusione in un carcere di Bata, in Guinea Equatoriale. Le porte dell’inferno per lui si sono aperte il 19 maggio 2013, quando si è accorto che il suo socio in affari, figlio del dittatore Obiang, aveva sottratto 1 milione e 400 mila euro dal conto in comune. Scoperto l’ammanco, è stato accusato del reato di cui è stato vittima ed è diventato il “prigioniero personale” di Teodorin.







Per due volte la scarcerazione è stata rimandata, tanto che i familiari temevano non tornasse più a casa. Poi, finalmente, la libertà.







Quale è stata la prima cosa che ha fatto, quando è stato liberato?

«Ho passato la notte a guardare le stelle. Nei due anni e cinque mesi di detenzione, non avevo diritto nemmeno ad un’ora d’aria. Non sapevo più di che colore fosse il sole».



Da dove ricomincerà, ora?

«Sicuramente da un piatto di maccheroni. Ne ho davvero bisogno visto che sono dimagrito 40 chili. Poi riorganizzerò la mia vita e lotterò per tutti coloro che devono ancora scontare quello che ho passato io. Io sono vittima di un processo farsa e come me ci sono altri italiani incarcerati in Africa il cui capo d’accusa è stato costruito a tavolino».



Cosa le ha dato la forza di resistere?

«Le persone che sono qua oggi ad aspettarmi. Solo per i miei figli e la mia famiglia ho superato le torture fisiche e psicologiche quotidiane. Dovevo resistere».



Qual è stato il momento peggiore?

«La cosa peggiore da sopportare è stata la solitudine. Ad un certo punto ho temuto davvero per la mia vita. Pensavo volessero far passare la mia morte per un malore, e credevo non se ne sarebbe accorto nessuno».



Denuncerà i soprusi subiti?

«Denuncerò tutto quello che ho vissuto. E, chissà, magari scriverò anche un libro con la mia storia. Ma più di tutto mi prenderò del tempo per ringraziare una ad una tutte le persone che hanno portato all’attenzione il mio caso. Sono vivo anche grazie a loro».



Tornerà in Africa?

«Certo. È il paese che amo».
Ultimo aggiornamento: Mercoledì 15 Luglio 2015, 09:45
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