Nel lager a passo di danza, i ricordi di Glaser sulla zia
salavata dal campo di concentramento

Nel lager a passo di danza I ricordi di Glaser sulla zia salvata dal campo di concentramento

di Paul Glaser
Nel 2002 partecipai a un convegno di lavoro per direttori d’ospedale a Cracovia.

Per una volta l’evento fu programmato mentre gli alunni di mia moglie Ria erano in vacanza e lei mi poté accompagnare. Non eravamo mai stati a Cracovia, per cui decidemmo di fermarci tre giorni, dopo il convegno, assieme ad altri direttori. Non vedevo l’ora.



Avremmo passato il primo giorno visitando la città e godendoci le sue vecchie strade. Il giorno successivo sarebbe stato dedicato all’esplorazione delle vicine miniere di sale. Il terzo e ultimo giorno avevamo in programma di visitare Auschwitz e il vicino lager di Birkenau. Man mano che il momento si avvicinava, non potei evitare di domandarmi perché andavo a visitare il campo. La sera prima della gita dissi a mia moglie che non ero dell’umore giusto per quell’escursione. Non ero mai stato in un campo di concentramento ma niente, in essi, stimolava la mia curiosità. Mi bastavano i documentari che avevo visto a scuola. Stavo cercando di razionalizzare un’intuizione più profonda? Annunciai al gruppo di non contare sulla mia presenza.

A colazione, l’indomani, alcuni colleghi tentarono di persuadermi a partecipare comunque alla gita (...) Per solidarietà, mi lasciai convincere. Quel mattino salii sull’autobus in preda a emozioni confuse.



IL VIAGGIO

Dopo un’ora di viaggio giungemmo in una vasta spianata. Il posto sembrava immenso. Le baracche di legno si stendevano a perdita d’occhio. La nostra guida, un giovane dai corti capelli biondi, ci accolse con un ampio sorriso. Si presentò e lo seguimmo oltre il cancello del campo con le parole “Arbeit macht frei” appese sopra le nostre teste. «Innumerevoli persone sono state assassinate qui» ci informò la guida «per la maggior parte ebrei. Uomini, donne, bambini, perfino neonati».



Mi sentivo un turista di catastrofi. Che cosa ci facevo lì? Perché non avevo resistito e non me n’ero rimasto in città? Con non meno entusiasmo, la guida ci pilotò oltre alcune strutture di pietra e si fermò accanto a un muro dove venivano quotidianamente giustiziate persone. Poi entrammo in un edificio vicino, dove il dottor Clauberg conduceva i suoi esperimenti medici. Lo stabile era stato adibito anche per ospitare i prigionieri e la nostra guida ci condusse nelle loro stanze male illuminate, dove gli oggetti confiscati erano ammonticchiati dietro a delle vetrate. Una teca conteneva un’enorme quantità di occhiali; un’altra mucchi di capelli umani, alcuni ancora raccolti in trecce. Mentre i miei colleghi si attardavano mia moglie e io andammo avanti nella stanza seguente, che era piena di valigie.



I prigionieri erano costretti a segnare i propri bagagli in modo che non si perdessero, così almeno veniva detto loro, per cui ogni valigia recava il nome del proprietario e il paese di origine. La mia attenzione fu subito attratta da una grossa valigia marrone che si trovava sul davanti. La sorpresa mi bloccò sul posto. Il bagaglio veniva dai Paesi Bassi e recava scritto a grosse lettere il cognome Glaser, relativamente raro nel mio paese. Anche mia moglie lo lesse e mi afferrò la mano. Nel vetro vidi il nostro riflesso sovrapposto al quadro, una valigia destinata a non andare da nessuna parte con sopra il mio nome. Il silenzio ci avvolse. Un attimo dopo le voci si fecero più forti, segnalando l’avvicinarsi del gruppo. «Non sono dell’umore giusto, andiamo via» dissi a mia moglie, e ci affrettammo ad attraversare la stanza diretti all’uscita. L’aria fresca mi fece bene. Dopo un po’ tutti ci raggiunsero. «L’hai vista la valigia marrone con su il tuo cognome?» mi chiese qualcuno (...)


Ultimo aggiornamento: Lunedì 27 Gennaio 2014, 12:30
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