La sua eredità per Gerusalemme: «Lui avrebbe trovato un accardo»

Il Paese e la paura per il futuro

di Eric Salerno
Un eroe per gli israeliani, un criminale di guerra per i palestinesi. Ariel Sharon era in coma da 8 anni, praticamente morto.



E, ovviamente, era fuori dai complessi giochi politici e diplomatici mediorientali. Ma il suo decesso, al di là dei giudizi sulla sua persona, ha riaperto un vecchio dibattito sul passato e rilanciato quello quotidiano sul futuro. Sharon il guerriero in quale direzione stava andando? Nuovi massacri o una soluzione del conflitto che vede nemici due popoli in lotta per lo stesso, piccolo, pezzo di terra?



LO SCRITTORE YEHOSHUA

Per Avraham Yehoshua non ci sono dubbi: «Se non si fosse ammalato, avrebbe fatto la pace con i palestinesi». Lo scrittore come molti altri analisti e commentatori israeliani, è convinto che non ci sono altri uomini o donne capaci di compiere il grande salto e passare da politico a statista. Questo vuoto viene sottolineato da buona parte della società israeliana (a parte, naturalmente, la destra estrema) e dai commenti di chi, ieri, ha voluto paragonare la figura di Sharon a quella dell'attuale premier Netanyahu. «E' leader incontrastato del governo da cinque anni - scrive Yossi Verter - ma non ha voluto o è stato capace di mandare avanti il processo di pace».



Domani, alla Knesset (il parlamento, a Gerusalemme), si svolgeranno in forma solenne i funerali di Arik, «grande statista», «padre della patria», «coraggioso protagonista». Parole scontate che poco potranno distogliere dalla domanda sulla bocca di tutti: il premier Netanyahu e il presidente Abbas sono o no più vicini a un accordo quadro per la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele? C'è chi ritiene che saranno i palestinesi a fare un passo indietro. Chi invece è convinto che Netanyahu non sarà mai capace di andare avanti.

L'altro giorno, secondo la stampa di Tel Aviv, il premier avrebbe detto al segretario di stato americano Kerry di voler togliere ogni riferimento a Gerusalemme (città in cui i palestinesi vogliono anche la loro capitale) da una bozza d'intesa. Pubblicamente, Netanyahu continua a rivendicare una presenza militare (e dei coloni) nella valle del Giordano, territorio che dovrebbe passare ai palestinesi. E su questo punto, i palestinesi non intendono transigere accettando, invece, una possibile presenza per qualche anno, di una forza di pace e di sicurezza statunitense.



Il segretario di Stato Usa John Kerry ha chiesto ai sauditi di convincere i palestinesi a riconoscere Israele come «stato degli ebrei». Una richiesta nuova, avanzata negli ultimi anni da Netanyahu ma che lo stesso Ben Gurion, padre della patria, aveva respinto come ipotesi. La logica sua e di altri: Israele deve essere il paese dei suoi cittadini non degli ebrei della diaspora. Non è chiaro cosa abbiano detto i sauditi. Sicuramente avranno ricordato a Kerry che Ariel Sharon non volle nemmeno considerare il loro piano per mettere fine al conflitto. Piano oggi, peraltro, alla base dei negoziati in corso.



Ieri i profughi palestinesi in Libano hanno festeggiato la morte di Sharon, il «boia di Sabra e Shatila» e tutti i leader palestinesi hanno ricordato, come evidente, la parte più negativa della vita dell'ex premier. Una parte d'Israele, invece, ha sottolineato come negli ultimi anni della sua vita aveva rotto con il Likud e fondato Kadima con l'apparente intenzione di mandare avanti il processo di pace. Era spietato, leggiamo nei commenti, ma anche capace di idee innovatrici, di trascinare e convincere. Pochi mesi dopo essere entrato in coma, uno dei suoi più stretti collaboratori ci raccontò che aveva nel cassetto un piano per risolvere uno dei nodi più complessi del contenzioso tra israeliani ebrei e palestinesi, la condivisione di Gerusalemme. Ora, giornalisti e storici, daranno la caccia a documenti e quaderni d'appunti lasciati in eredità ai figli di uno degli ultimi “fondatori d'Israele”.
Ultimo aggiornamento: Domenica 12 Gennaio 2014, 10:47
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