Lavoro e riscatto, le virtù del carcere giapponese

Lavoro e riscatto, le virtù del carcere giapponese

di Pio D'Emilia

Non solo piccoli oggetti di artigianato, pupazzetti e soprammobili: ora anche indumenti, scarpe, biscotti fatti “in casa”, ortaggi freschi e persino i prelibatissimi shitake, sorta di porcini locali. Il tutto ordinato on line, a prezzi stracciati, su una piattaforma semplice ed efficace, che prevede la consegna a domicilio entro pochi giorni. Direttamente dal carcere. 
Il sito si chiama “Capic”  ed è gestito direttamente dal ministero della Giustizia giapponese, sezione Amministrazione carceraria. Una iniziativa nata su base sperimentale qualche anno fa ma che quest’anno, con la pandemia che ha fatto esplodere il commercio on-line, sembra raccogliere molto successo: un modo per “sfruttare” meglio il lavoro dei detenuti (in Giappone chiunque venga condannato ad una sentenza di oltre sei mesi è obbligato a lavorare, in cambio di un salario nominale di circa 30 euro al mese) e al tempo stesso dar loro l’impressione di essere in qualche modo ancora parte del tessuto sociale. Come in tutte le cose, ci sono i pro e i contro: ma alcuni dati sembrano dare ragione a questo sistema.

Le carceri giapponesi sono tra le più pulite, “organizzate” e sicure del mondo. Ampiamente sotto-occupate (66% della capienza, contro il 136% in Italia) ed il tasso di recidività è bassissimo: 17%. In Italia è del 68%. In compenso, la disciplina al loro interno è ferrea: ai detenuti è vietato parlare tra di loro nei luoghi “pubblici” e sul lavoro e persino guardare in faccia, diritto negli occhi, le guardie. Vietato, sempre e comunque, fumare, usare telefoni e/o tablet e computer personali, niente tv e giornali, colloqui ridotti al minimo (una volta al mese, 15 minuti, in genere). In compenso, la pena viene vissuta come è previsto che lo sia dalla maggior parte delle moderne Costituzioni: come strumento di riabilitazione in vista del reinserimento sociale del condannato. Il bassissimo tasso di recidività, come abbiamo visto, mostra che il sistema funziona. 


In Giappone il Natale non si festeggia: è un giorno lavorativo qualsiasi. Ma a fine dicembre scatta la stagione dello shogatsu, il lungo ponte di Capodanno che tradizionalmente blocca il Paese e che quest’anno durerà probabilmente qualche giorno di più, per via del Covid (neanche la pandemia è riuscita sinora a convincere i giapponesi a godersi tutte le ferie che gli spettano), mentre lo smart-working ha provocato un’esplosione di separazioni e divorzi.
Lo shogatsu è una delle due occasioni ufficiali per scambiarsi auguri, “pensieri” e veri e propri regali (l’altra è il solstizio d’estate, il chugen).

Un’occasione ghiotta per i grandi magazzini e i megastore-online che tradizionalmente danno fondo all’invenduto offrendo strenne speciali da ordinare “al buio”, in base alla cifra che volete spendere. Una volta scelta la cifra (operazione molto delicata: a seconda di chi sia il destinatario, non bisogna mai esagerare né in generosità né in tirchieria) l’ordine viene preso in consegna da esperti kakarimono (addetti alle vendite) e ai vostri genitori, parenti, amici e/o (soprattutto) colleghi e superiori arriverà un pacco “sorpresa”. Dentro può esserci davvero di tutto, e a volte anche mischiato in ordine sparso. Una cravatta firmata, una lattina di olio tartufato, un chilo di preziosissima uva, un melone muschiato, un buono per un soggiorno in qualche albergo prestigioso: quello che conta, si sa, è il pensiero. Tant’è che molti di questi pacchi vengono riciclati direttamente, senza essere nemmeno aperti, esattamente come facciamo noi, a volte, con i doni di nozze. Una usanza che negli ultimi tempi ha letteralmente salvato le catene di grandi magazzini e che ora si arricchisce di una nuova, ancorchè decisamente limitata, “piattaforma”. 


Dicevamo dei pro e i contro del sistema carcerario. Di estremamente crudele c’è il trattamento dei condannati a morte. Giappone e Usa sono gli unici Paesi del G7 a prevedere ancora questo tipo di pena, ed in Giappone attualmente sono un centinaio i detenuti in attesa di essere “giustiziati” (per impiccagione). Per loro, non essendoci possibilità alcuna di riabilitazione e reinserimento, le condizioni di detenzione sono particolarmente crudeli. Una di queste è il divieto – proprio così, il divieto – di lavorare, considerato un privilegio. Una crudeltà nella crudeltà.


Ultimo aggiornamento: Martedì 27 Ottobre 2020, 11:38
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