Iran-Usa: raid sui monumenti, America divisa e Londra avverte: noi non ci stiamo

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di Flavio Pompetti
Donald Trump raddoppia la minaccia di attaccare i siti culturali sacri per la popolazione iraniana. Lo ha fatto durante il volo di ritorno da Miami a Washington, al termine della lunga pausa natalizia nella sua proprietà di Mar a Lago.
Il presidente si è intrattenuto per una mezz'ora con i giornalisti che erano a bordo dell'Air Force One, e quando gli è stato chiesto di elaborare il concetto di colpire i luoghi della cultura in Iran, ha avuto una reazione di stizza: «A loro (gli iraniani, ndr) è permesso di uccidere i nostri; possono torturare e mutilare i soldati statunitensi, possono colpirci cole le loro bombe antiuomo e farci saltare in aria, e noi non saremmo autorizzati a toccare i loro siti culturali? No, non è così che funziona!»

LE NORME
Attaccare i beni culturali in realtà è un crimine di guerra, stando a quanto stabilisce la convenzione dell'Aia, e come è stato ribadito da diverse risoluzioni dell'Onu, a partire da quella adottata nel 2001, dopo che i talebani avevano demolito le statue rupestri del Buddha in Afghanistan. La necessità di tutelare i simboli della cultura universale è una consapevolezza di data recente ma ben condivisa nella comunità internazionale. La Corte internazionale ha espresso condanne negli ultimi anni per gli scempi compiuti dall'Isis in Siria e in Iraq, e ha indicato responsabilità personali per i crimini commessi. Anche gli Usa sono coscienti della gravità delle parole del presidente. Poche ore prima il segretario Pompeo aveva cercato di minimizzare la prima uscita pubblica di Trump sul tema, assicurando che in un eventuale escalation del conflitto con l'Iran, gli Usa «agiranno entro i confini della legalità». A Trump quei confini stanno stretti, e la riconferma della minaccia suscita l'allarme delle cancellerie degli altri Paesi firmatari di quegli accordi.
Ma anche negli Stati Uniti la dichiarazione del presidente ha suscitato scalpore, i democratici al Congresso sono partiti all'attacco, e gli artisti sul palco dei Golden Globe denunciano indignati l'offesa, anche solo ipotetica, al patrimonio dell'umanità. Il mondo della cultura insorge, intervengono anche i direttori dei maggiori musei americani e britannici: «Sono minacce odiose». L'Unesco ricorda che i beni culturali sono protetti da una convenzione firmata anche da Washington.
Ancora una volta la Casa Bianca è intervenuta a correggere il tiro della retorica del suo presidente, o almeno a cercare di darle una motivazione. La consigliera Kellyann Conway, una delle voci più intime dell'ufficio ovale, ha precisato che alcuni dei templi della cultura in Iran sono usati per occultare e proteggere installazioni militari, e che per questo l'amministrazione Trump pensa di essere legittimata a colpirli. Il dibattito non riguarda solo i due Paesi coinvolti, ma interessa ogni altro stato al mondo che ha un patrimonio culturale da difendere, e che è preoccupato all'idea di vedere gli Usa, il Paese che si dichiara garante della protezione dei diritti umani, calpestare simboli che spesso fanno parte dell'identità di un popolo.

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IL DISTINGUO DI BORIS
Un primo distinguo è arrivato dall'Inghilterra, primo tra gli alleati degli Stati Uniti. Il portavoce di Boris Johnson è stato molto cauto nel calcare la mano sul dissenso, e ha detto che i rapporti tra Londra e Washington sono ottimi, a dispetto del silenzio che ha preceduto l'assassinio del generale Soleimani, del quale Downing Street è stata tenuta all'oscuro. Ma sull'ipotesi di bombardare i siti culturali iraniani, Johnson è stato lapidario: «Dovranno farlo senza il nostro aiuto ha detto il suo addetto stampa ci sono convenzioni internazionali che lo proibiscono, e che noi ci impegniamo a rispettare».
Ultimo aggiornamento: Martedì 7 Gennaio 2020, 10:28
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