Assistenti sociali nel mirino, aggressioni in aumento: «Dopo Bibbiano categoria più esposta»

Assistenti sociali nel mirino: aggressioni in aumento: «Dopo Bibbiano categoria più esposta»

di Rosalba Emiliozzi
Sempre più una professione di frontiera. Come i medici, anche la categoria degli assistenti sociali è esposta ad aggressioni verbali e fisiche. E in Abruzzo il fenomeno è in crescita e vede come vittime le assistenti sociali donne, che sono il 90 per cento delle iscritte all'Ordine professionale. Dal 2016 ad oggi si contano quattro gravi aggressioni fisiche, sfociate in denunce e procedimenti penali. Nel 2016 sono state tagliate le gomme di un’assistente sociale, nel 2018 a Lanciano due assistenti sociali sono state prese a botte durante un incontro protetto tra padre e figlie; l’uomo, in uno scatto d’ira, ha colpito più volte le due donne che sono state ferite e hanno avuto bisogno delle cure del pronto soccorso.

Poi questa estate un uomo accusato di omicidio ha distrutto l’ufficio dei servizi sociali di Avezzano col personale barricato dentro perché voleva a tutti i costi il reddito di cittadinanza. Alcuni mesi fa, infine, nella Ausl di Pescara i genitori tossicodipendenti di una neonata hanno minacciato pesantemente l’assistente sociale che stava evidenziando le problematiche sanitarie della nascitura. Casi al vaglio dell’Ordine degli assistenti sociali d’Abruzzo.
 
Presidente Francesca D’Atri, il caso di Bibbiano e le nuove competenze, come il reddito di cittadinanza, vi vedono quasi in trincea. Cosa fare? 
«La nostra categoria è sovraesposta e lo sarà ancor di più quando il reddito di cittadinanza andrà a regime. Gli assistenti sociali sono chiamati a validare un percorso che va oltre il “patto per il lavoro”. Per tutte quelle persone che quindi accedono ai servizi sociali, noi assistenti sociali siamo per legge il perno di un sistema che finalmente riconosce e promuove il nostro ruolo. Entriamo in campo con un progetto di intervento sulla persona e sulla famiglia in base alle fragilità emerse per favorire l’inclusione sociale e il benessere». 

Un esempio? 
«Nel reddito di cittadinanza, se emergono bisogni complessi, dobbiamo attivarci per “fare rete”, che significa collaborare con una rete di professionisti d’aiuto per la persona, ad esempio con il Servizio per le dipendenze se ci sono problematiche legate all’uso di sostanze, alcool o altre dipendenze, con il centro di salute mentale per fragilità psichiche, mettendo sempre al centro dell’intervento la persona». 

Eppure l’insofferenza degli utenti è palpabile. 
«L’aumento degli utenti dei servizi sociali derivanti dal Reddito di cittadinanza si può trasformare in un aumento dell’aggressività quando le risposte dei servizi non sono immediate o gli operatori sufficienti. A fronte di tante persone che comprendono il nostro impegno quotidiano, purtroppo, nei casi sopra citati, ci siamo trovati di fronte a episodi gravissimi di persone sopraffatte da situazioni di estrema sofferenza e disagio sociale. In questi casi le aggressioni verbali e le minacce sono all’ordine del giorno. A volte persone in particolari situazioni di fragilità e di disperazione pretendono quel tipo di aiuto dal professionista che lavora sul campo, che troppo spesso si trova a lavorare con poche e sempre meno risorse». 

Poi ci sono i fatti di Bibbiano che hanno gettato un’ombra nera su tutta la categoria. 
«È sicuramente una storia di dolore che ha emotivamente coinvolto tutti: famiglie in difficoltà, bambini e operatori che ogni giorno lavorano con impegno, dedizione e professionalità, rispettando i principi etici e deontologici della professione. La modalità con cui in questi mesi è stato trattato questo tema così delicato e complesso ha scatenato una reazione a catena contro il sistema dei servizi sociali e la nostra professione con accuse e offese che hanno destabilizzato noi professionisti e l’opinione pubblica, e che lascerà tracce in tutti noi. C’è un’indagine in corso, se verranno accertate le imputazioni dalla magistratura, queste persone devono rispondere personalmente dei fatti compiuti e pagare per ciò che hanno fatto perché non può essere concesso a nessuno di sbagliare sulla pelle dei bambini». 

Secondo lei si sta facendo di tutta l’erba un fascio?
«È bene ricordare che la legge che regola l’affido familiare si pone come uno strumento di aiuto per la famiglia, il cui fulcro è tutelare il bambino e lavorare per il rientro nelle famiglie d’origine. Purtroppo le tante storie di vita che ascoltiamo tutti i giorni nei nostri uffici riguardano bambini che subiscono gravi maltrattamenti, abusi, incurie per lo più intra-familiari. Dobbiamo sempre più imparare a proteggere questi bambini. Noi assistenti sociali siamo chiamati, per deontologia ed etica professionale, a prevenire o interrompere situazioni gravi e a dare un’altra opportunità di vita a queste anime innocenti, collaborando con gli altri servizi e relazionando alla magistratura che prende i provvedimenti per tutelare i bambini e favorire lo sviluppo in termini generali di una società dei diritti dei più piccoli».
 
Cosa fare allora? 
«In questo difficile momento è doveroso un’adeguata risposta da parte delle istituzioni anche con un reale rafforzamento dei servizi sociali. Siamo molto soddisfatti di un traguardo, ovvero che con il  famoso decretone siano state individuate “misure di sicurezza volte a prevenire episodi di violenza” e siano aumentate le risorse economiche per l’assunzione in deroga, seppure a tempo determinato, degli assistenti sociali». 

Che tipo di misure di sicurezza? 
«Dotare gli uffici di dispositivi minimi come la presenza di una guardia giurata o di un vigile di polizia municipale assegnato ai servizi sociali, sistemi di sicurezza come pulsanti anti-panico, allarmi portatili e prevedere vie di fuga, con ambienti illuminati sia all’interno che all’esterno degli uffici». 

Si parla anche di indennità di disagio?  
«Sarebbe utile riconoscerla a una categoria chiamata tutti i giorni a fronteggiare e prevenire situazioni di grave disagio». 

Quanti sono oggi gli assistenti sociali iscritti all’Albo professionale?  
«In Abruzzo ci sono 1.321 iscritti all’albo professionale, di cui 1.251 donne, cioè il 90 per cento. Sono impegnate in
Comuni, Asl, Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna), Ussm (Ufficio servizio sociale minori), Inail, cooperative sociali, comunità educative, comunità d’accoglienza, centri di riabilitazione». 
 
Quali sono i settori emergenti in cui è richiesta sempre di più la vostra professionalità?  
«Le separazioni conflittuali, che sono in forte aumento, problematiche di doppia dipendenza (compresenza di uso di sostanze e fragilità psichica), problemi relazionali nelle famiglie, non autosufficienza, immigrazione, povertà materiale, educativa e relazione, e in termini generali, tutte le forme di marginalità e di esclusione sociale».  
Ultimo aggiornamento: Giovedì 26 Settembre 2019, 16:04
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