Sono dodici capitoli, ma potrebbero essere dodici giorni; o forse ore. La trama è presto detta: un uomo giunto alla fine della vita torna alla montagna che ha segnato la sua esistenza, dalla fanciullezza alla vecchiaia, e ogni giorno riflette su un evento o stato d'animo. È L'uomo che guardava la montagna di Massimo Calvi, giornalista del quotidiano Avvenire che ha dimestichezza con i saggi sull'economia e ora debutta nella letteratura.
La montagna è di moda in letteratura.
«Sì, ma la mia è un pretesto per parlare dei luoghi cui apparteniamo. È una montagna interiore. La pandemia ci ha fatto capire l'importanza di un posto in cui volere andare, o ritornare; un paesaggio dove si è vissuto in modo profondo».
Lo ha scritto durante la pandemia?
«La reclusione mi ha dato la spinta: ho voluto restituire qualcosa di ciò che ho avuto, la bellezza di camminare nei miei luoghi, vedere la mia montagna, che è quella del ramo materno della mia famiglia, nella Bergamasca, ma anche la poesia delle cose semplici.
Secondo lei oggi manca un vero contatto uomo/natura?
«Sì, abbiamo un approccio predatorio con la natura, di sfruttamento. Oppure la consideriamo luogo in cui rifugiarci. Invece la natura deve aiutare a ritrovare la bellezza che è già in noi. E allora la montagna non è fuga, ma ritorno a casa».
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Ultimo aggiornamento: Venerdì 15 Luglio 2022, 14:42
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