Franco Fasano, 40 anni di musica in un libro: «Io, “il figlio del fotografo” tra Sanremo e lo Zecchino»

Franco Fasano, 40 anni di musica in un libro: «Io, “il figlio del fotografo” tra Sanremo e lo Zecchino»

di Totò Rizzo

A Sanremo hanno continuato a chiamarlo affettuosamente “il figlio del fotografo” anche quando sul palco del festival è salito da concorrente, pure dopo che aveva già scritto per Lauzi, Mina, Mia Martini, Ranieri, Oxa, Califano, Di Capri, Zanicchi, Leali, Carrà, Al Bano, Goggi. Lui se ne è sempre fatto un vanto. Perché Antonio Fasano, storico fotografo di artisti della musica leggera e della kermesse rivierasca, s’era trasferito in Liguria dal Piemonte (dov’era arrivato dall’originaria Puglia) proprio per far crescere in un clima più caldo suo figlio Gianfranco, ovvero Franco, il compositore e cantante in questione. Che esce adesso con un libro, «Io amo» (edizioni D’Idee, 380 pagine), intitolato come una delle sue canzoni di maggior successo, lanciata da Fausto Leali guarda caso all’Ariston nel 1987. Un libro che compendia (tra successi, sogni, incontri, aneddoti) 40 e passa anni di musica su 60 d’esistenza, i cui capitoli sono 33 come i giri del vecchio long playing e intitolati con gli stessi titoli di canzoni più o meno celebri, “medagliate” e non.

Fasano, cominciamo dal “figlio del fotografo”.

«Ho conosciuto il festival da ragazzino nei primissimi anni ’70, mio padre mi portava alle prove, poi da adolescente gli ho anche fatto da assistente, le serate si facevano ancora al Casinò, con l’orchestra, tra i ricordi indelebili quello dei Ricchi e Poveri e Josè Feliciano che cantavano “Che sarà”. Ma la passione per la musica c’era da sempre. Fu notata per primo da Enrico Simonetti che era di Alassio e che fu invitato a uno spettacolino nella mia scuola media. A un certo punto chiese agli alunni: chi di voi sa cantare? Un bidello che mi aveva già ascoltato mi lanciò sul palco. Ecco, il mio primo accompagnatore al piano fu il maestro Simonetti. A fine esibizione disse a mio padre: il ragazzino ha talento, lo porti dal maestro Barzizza, a Sanremo. Si vede che quel posto era nel mio destino. Canto davanti a Pippo Barzizza che mi “promuove” e fa: “Se vuoi fare questo mestiere, va’ a Milano e studia”».

Suo padre la fotografò nell’81 quando lei debuttò al festival come autore e cantante.

«Un obiettivo poco obiettivo, il suo, quella volta. La canzone, l’interpretazione lui sapeva coglierle nell’istante dello scatto. Ma con me credo fu diverso. E comunque, nonostante quel battesimo, rimanevo per l’entourage festivaliero “il figlio del fotografo”».

Più che come cantante, le sue belle soddisfazioni a Sanremo le ha colte da autore. C’è una nota di rimpianto per questo?

«Rimpianto è una parola che non mi piace, dà la sensazione dell’amaro in bocca. La verità è che tutte le canzoni che ho scritto per i grandi interpreti da quarant’anni e fino a pochi giorni fa, le ho scritte per me. Non sono mai stato uno di quegli autori che non sanno cantare le proprie canzoni, io ho continuato a fare concerti, a incidere dischi ma sia la stessa discografia che la tv seguono altre logiche. Quand’ero giovane scrivevo canzoni più “vecchie” di me che venivano per questo assegnate a interpreti più “maturi”. Oggi, quando eseguo dal vivo i pezzi scritti per altri – come la famosa triade sanremese che rilanciò Fausto Leali, “Io amo”, “Ti lascerò” e “Mi manchi” – le faccio alla mia maniera e il pubblico le riscopre quasi fossero nuove».

Il musicista Fasano va a braccetto con il Fasano paroliere?

«Nella prima parte della mia carriera mi sono sentito un musicista al servizio delle parole, a un certo punto ho cominciato a dedicarmi di più ai testi, incoraggiato da Mia Martini».

Racconti.

«Fu un caso. Avevamo partecipato a “Viva Napoli” negli studi Mediaset, entrambi con due classici sulla luna. Accarezzando l’idea di fare un album di inediti su questo tema, lei mi invitò a scrivere qualcosa ma io nicchiai. E per tergiversare le raccontai delle canzoni che scrivevo per lo Zecchino d’oro (Fasano ha composto per il festival dell’Antoniano brani che si sono trasformati in 12 Zecchini d’argento,6 dei quali diventati d’oro, ndr).

Allora Mimì mi disse: “Vedi? Se scrivi per i bambini, puoi benissimo scrivere anche per me”».

La canzone poi venne fuori?

«Certo, si intitola “La luna”: Ma Mimì non riuscì a fare quell’album perché poco dopo morì».

Chi tra i tanti interpreti ha cantato meglio una canzone scritta da lei?

«Non posso fare un nome perché ognuno, quando sceglie una tua canzone la fa propria. So, per esempio, che a Mina era molto piaciuto il mio provino di “Certe cose si fanno”, brano che io e Bruno Lauzi le proponemmo e che lei scelse. Ma Mina è un unicum. Gli autori sono gli ingredienti, poi è lei che li cucina con la sua voce».

L’interprete però è la punta dell’iceberg.

«Certo, dietro c’è il lavoro degli autori, degli arrangiatori, dei produttori. Il problema è che oggi l’interprete è spesso al servizio del mercato, specie di quello televisivo. Un tempo la Zanicchi non poteva cantare la stessa canzone della Vanoni e viceversa. Erano gli artisti a mettere a fuoco le emozioni, oggi è il management che le mette a fuoco, come in laboratorio. Così i dischi: una volta entravi in un negozio e tra i vinili ti si apriva un universo, compresi i crediti riportati su copertina ed etichetta. Oggi rimani a casa ad ascoltare in streaming su Spotify».

Sembra pessimista. Nessun artista per cui vorrebbe scrivere oggi?

«Mi piace Gabbani, mi emoziona e mi diverte pur non avendo una grandissima voce. Irama è uno dei più bravi. E anche Ultimo: è la dimostrazione che, quando uno ha dentro un mondo, basta niente per accendere quel mondo».

Perché ha deciso di raccontarsi in questo libro? Un bilancio, un riannodare i fili della memoria?

«Non mi sarebbe mai venuto in mente se non fosse stato per Massimiliano Beneggi, critico musicale, che mi aveva fatto una lunga intervista per il suo blog. Dopo qualche tempo mi chiama e mi propone di scrivere insieme un libro su di me. “Ma a chi vuoi che interessi? Mica sono Ligabue”, gli ho risposto. Poi però ci ho ripensato e durante il lockdown è nata una lunghissima conversazione on line Roma-Milano, per mesi, dalle tre alle otto ore al giorno. Ne è venuto fuori un racconto secondo me piuttosto singolare, anche nella dinamica della lettura. E “il figlio del fotografo” lo dedica al papà che è stato il primo motore di tutto questo».

Finiamo con una domanda-citazione che è l’incipit di «Io amo»: ma dove va a finire il cielo?

«Le rispondo con un’altra citazione che prendo in prestito da una canzone altrettanto famosa scritta dal mio grande amico Bruno Lauzi: il cielo è sempre dove, nell’universo, c’è almeno una persona disposta a darti ascolto».


Ultimo aggiornamento: Venerdì 10 Dicembre 2021, 10:43
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