Simonetta Cesaroni, parla Antonio Del Greco: «Delitto a sfondo sessuale, chi sapeva si è ucciso»

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di Cristiana Mangani
È quasi mezzanotte del 7 agosto del 1990, quando il capo della sezione Omicidi della questura di Roma, Antonio Del Greco, riceve una telefonata: «Dotto’, venga de’ corsa, abbiamo trovato il cadavere di una ragazza».

A distanza di trent’anni per la morte di Simonetta Cesaroni non c’è un assassino, dottor Del Greco chi ha ucciso in via Poma? 
«Un’idea naturalmente ce l’ho, ma oggi rischierei di prendere una querela. Sono convinto, però, che il palcoscenico degli attori comparsi in questa storia sia sempre lo stesso: portiere, indagati, datori di lavoro, tra questi c’è la verità». 



 

L'inchiesta

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Antonio Del Greco


Le indagini sul delitto sono state più volte contestate, sono stati commessi degli errori?
«È stato fatto tutto quello che era possibile, compatibilmente con la tecnologia dell’epoca. Le persone parlano, ma non ricordano che l’esame del Dna non era certamente preciso come è ora. Quando sono stato interrogato in aula durante il processo all’ex fidanzato di Simonetta, è stato contestato che non avevamo analizzato le celle telefoniche. Ma di che stiamo parlando? Sono cose che non esistevano negli anni ‘90».

Quando la tecnologia si è affinata, è finito sotto processo ingiustamente proprio Raniero Busco. La soluzione del giallo è rimasta lontana.
«L’innocenza dell’ex fidanzato di Simonetta era palese. Questo conferma che non ci sono stati errori nelle indagini da parte nostra, perché altrimenti, con le tecnologie moderne, si sarebbe arrivati all’assassino. Del resto, Busco sarebbe stato il responsabile ideale, un po’ come il maggiordomo. È chiaro che abbiamo valutato subito la sua posizione, ma aveva un alibi».
 


Mai come nella storia di via Poma i misteri si sono susseguiti: dai servizi segreti ai depistatori c’è entrato di tutto. Perché così tanto interesse a questa vicenda?
«Ogni fesseria ha preso corpo: i servizi segreti sono stati tirati in ballo, dopo che è stato visto il genero dell’ex capo della Polizia Parisi che si trovava sul posto perché lavorava alla Mobile, e solo più tardi è entrato a far parte dell’intelligence. Poi per l’attività dell’ufficio. Si è parlato anche di un giro di prostituzione. Io so solo che Simonetta era una ragazza di vent’anni, senza ombre. Quella notte, davanti al cadavere e agli oggetti personali, c’era ancora un panino nella sua borsa, chiuso dentro la stagnola. Era questo lei, una giovane donna semplice».
 
E allora, quale il movente dell’omicidio?
«Resto dell’idea che si sia trattato di un movente a sfondo sessuale, qualcuno che lei conosceva. Quale serial killer citofona, sale, e dopo aver ammazzato la ragazza, pulisce tutto e chiude la porta con quattro mandate? È impensabile».
 


Torna l’ipotesi che possa aver colpito qualcuno vicino alla vittima? 
«In questa storia, sin dal primo momento, tutte le persone presenti sulla scena del delitto hanno mostrato scarsa volontà di collaborare. Non ci sono stati dei veri testimoni. Persino i racconti fatti dalla sorella e dal datore di lavoro sembravano incredibili: la famiglia che si preoccupa dopo solo mezz’ora di ritardo, il datore di lavoro che dice di non aver mai saputo che l’ufficio fosse in quel palazzo. E poi il portiere».

Pietrino Vanacore, l’uomo più misterioso della vicenda, è morto suicida a un giorno dalla nuova testimonianza nel processo contro Raniero Busco. Che segreti nascondeva?
«È la persona che viene interrogata per ultima, ma si capisce subito che non contribuisce alle indagini. Soprattutto quando intuisce che stiamo insistendo sul suo alibi. Si è ucciso perché per la prima volta avrebbe dovuto rispondere a delle domande specifiche. Nessuno mi toglie dalla testa l’idea che sia entrato in quell’ufficio. Avrebbe dovuto spiegare anche alcune brutte storie che riguardavano il suo passato».

Durante la sua carriera ha trattato 112 omicidi, molti dei quali risolti. Via Poma è quello che più le è rimasto nel cuore, e dopo anni di rifiuti, ha deciso di scrivere un libro, cosa l’ha convinta?
«L’ho scritto insieme con il giornalista Massimo Lugli. Si chiama “Il giallo di via Poma - trent’anni senza giustizia, trent’anni senza un colpevole”. Non arriviamo alla verità, raccontiamo le emozioni, gli stati d’animo. Ricordiamo la ragazza uccisa, ma anche suo padre che ogni giorno si recava in questura o in procura per avere notizie sulla morte di sua figlia. Ecco, non aver dato il nome all’assassino di Simonetta è il grosso rammarico che nutro nei suoi confronti». 
 
Ultimo aggiornamento: Domenica 2 Agosto 2020, 14:16
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