Silvia Romano e la nuova vita come Aisha: «Sento gli occhi della gente addosso, ma il velo è libertà»

Silvia Romano e la nuova vita come Aisha: «Il velo è libertà»
MILANO Quando è scesa dall’aereo a Ciampino, lo scorso 10 maggio, una delle prime frasi di Silvia Romano è stata: «Mi sono convertita all’Islam per libera scelta». E ora la cooperante milanese - rapita il 18 novembre 2018 dall’orfanotrofio di Chakama, in Kenya, da un commando armato di otto persone e poi venduta ai terroristi somali di Al Shabaab - lo ribadisce in una lunga intervista al giornale online “La Luce” di cui è direttore Davide Piccardo, esponente della comunità islamica di Milano.

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DISPERAZIONE
Per la prima volta Silvia racconta dei lunghi mesi di prigionia e della sua conversione. «Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino», sono le sue parole. «Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come. La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima. La prima volta ci misi due mesi a leggere il Corano, mentre la seconda mi fermavo a riflettere più seriamente e sentivo sempre più il bisogno di leggerlo, fino a quando ho abbracciato l’Islam. Di fronte a molti versetti avevo la sensazione che Dio si rivolgesse a me, mi colpivano al cuore».

IL VELO
Silvia ha abbandonato gli abiti occidentali per il jilbab, veste tradizionale indossato dalle donne in Kenya e Somalia, con il capo coperto. Una decisione che ha caricato di tensione il suo ritorno in Italia, trasformando la giovane nel bersaglio degli odiatori del web: ha ricevuto centinaia di messaggi carichi di insulti e minacce, qualcuno è passato ai fatti lanciando una bottiglia contro la sua finestra, colpendo quella dei vicini. «Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso, non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio. Per me il mio velo è un simbolo di libertà. In un momento in particolare credevo di esser convinta di poter accettare la religione, ma mi fermò la paura delle reazioni degli altri. Ho pregato tantissime volte Dio affinché rafforzasse la mia fede per quello a cui sarei andata incontro, che rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto». Silvia Romano afferma che, fin dall’inizio, era consapevole dell’ostilità alla quale sarebbe andata incontro. «In metro o in autobus credo colpisca il fatto che sono italiana e vestita così. Ma sento la mia anima libera e protetta da Dio». E la scelta del nuovo nome, Aisha, da dove arriva? «Ho sognato di trovarmi in Italia, passavo ai tornelli della metropolitana e sulla mia tessera dell’Atm c’era scritto Aisha. E poi è un nome che significa “viva”».

LE INCHIESTE
Intanto proseguono le indagini sia sul fronte milanese, sia su quello romano, che punta in particolare a identificare i rapitori.
Al pm capitolino Sergio Colaiocco la giovane ha smentito il matrimonio con uno dei carcerieri e anche la gravidanza: «Non mi hanno mai picchiato né esercitato violenza psicologica, fisica o sessuale. Non sono incinta e nessuno ha approfittato di me. Mi rassicuravano sul fatto che presto sarei stata liberata. Non mi hanno mai incatenato o tenuto legata, ero libera di muovermi nelle sei case dove siamo andati. Gli spostamenti erano lunghi e faticosi, ma non ho mai visto in volto i miei carcerieri perché erano sempre coperti». L’inchiesta della Procura di Milano sta invece cercando di dare un’identità agli odiatori della rete che l’hanno insultata: per loro si configurerebbe il reato di minacce aggravate dall’odio razziale.

Ultimo aggiornamento: Lunedì 6 Luglio 2020, 18:05
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