È l’incubo di tutti i genitori: vedere il figlio uscire e avere il terrore che gli possa capitare qualcosa. Istintivamente ed egoisticamente lo si vorrebbe proteggere da tutto e da tutti. E all’inizio in molti fanno così: anni a fare i “tassisti” tra feste di compleanno e vacanze. Mattine con gli occhi gonfi dal sonno per accompagnarli sui campi di calcio o tennis di periferia, e notti con il pigiama sotto il cappotto per andarli a riprendere all’uscita da una discoteca pur di non lasciarli tornare in macchina chissà con chi.
Poi, arriva un momento in cui si cede giustamente alla consapevolezza che bisogna lasciare i nostri ragazzi liberi di spiccare il volo verso il futuro, di fare le proprie esperienze, anche i propri errori, ma di andare là fuori a prendersi la vita. E giù a raccomandazioni su chi frequentare, cosa bere, come comportarsi, «Telefona quando arrivi», «Manda un messaggino». Più o meno le stesse raccomandazioni ricevute dai nonni vent’anni prima.
Ma non servono a niente, si sa.
E allora? E allora, al di là delle responsabilità penali di ogni caso, non c’è niente che si possa fare: si può morire anche solo passeggiando sul marciapiede. È il maledetto mistero della vita. Come ha scritto Giancarlo De Cataldo: «Vai a capire come e perché capita che, allo sparo dello starter, tutti si mettono a correre di gran lena, e poi solo pochi fortunati arrivano al traguardo». Non c’è niente che si possa fare e non c’è niente da capire. Lo sanno Paola e Luca, i genitori di Francesco. Lo sappiamo tutti noi. Ed è un incubo.
Ultimo aggiornamento: Venerdì 28 Ottobre 2022, 23:22
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