«Io sfregiato dalla coppia dell'acido, ora sono un guerriero»: Stefano Savi si racconta in un libro

I suoi aggressori, Alexander Boettcher e Martina Levato, ribattezzati dalle cronache “la coppia dell’acido”, e il terzo complice, Andrea Magnani, stanno scontando la pena in carcere

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di Maria Bruno

«Il 2 novembre 2014? Solo un brutto ricordo». Fermo e sereno Stefano Savi, sfregiato a 25 anni dall’acido per uno scambio di persona avvenuto a Milano, nel commentare quel giorno terribile in cui fu deturpato. I suoi aggressori, Alexander Boettcher e Martina Levato, ribattezzati dalle cronache “la coppia dell’acido”, e il terzo complice, Andrea Magnani, stanno scontando la pena in carcere.

Storie Italiane, Stefano Savi sfregiato dall'acido per sbaglio nel 2014: la sua storia in un libro

La sentenza di primo grado ha stabilito per Alexander Boettcher 21 anni, per Martina Levato 19 anni e 6 mesi e per Andrea Magnani 8 anni e 9 mesi. La coppia ha anche avuto un bimbo, dato in adozione. Oggi Stefano ha 33 anni, fa il broker per diverse aziende e vive a Quarto Cagnino, proprio nel quartiere dove fu assalito. A otto anni da quella aggressione ha deciso di mettere nero su bianco la sua vicenda nel libro autobiografico L’odore dell’acido.

L'intervista

Stefano Savi, come sta oggi?

«Alla grande. I momenti bui li ho riposti nel cassetto, ora sono molto più sereno. Il resto è solo un ricordo».

Che sentimenti prova quando ripensa alla “coppia dell’acido”?

«Nulla. Né odio, né rancore. Questi sono sentimenti, perché dovrei provarli per loro? Da parte mia c’è totale indifferenza. Di quel giorno ricordo solo gli occhi di ghiaccio di Alexander Boettcher e lo stato di avanzata gravidanza di Martina Levato. La giustizia ha fatto il suo corso anni fa, chi sono io per giudicarli ancora?».

Ha mai ricevuto delle scuse da loro?

«Non credo sappiano nemmeno cosa significhi la parola “scusa” o, peggio ancora, “pentimento”. Non mi aspettavo all’epoca le scuse, oggi ancora meno adesso. Durante il processo, mi chiedevo se avessero ben chiaro il concetto di umanità e benevolenza. Ma, come si è visto, non credo proprio. E per me, va bene così».

Quante operazioni ha dovuto subire per ricostruire il volto?

«Ho subito cinquantanove interventi».

Cinquantanove interventi e tante lacrime?

«Molti pensano questo, ma in realtà no, forse avrò pianto una volta sola. Non mi sono mai pianto addosso. Non c’era tempo da perdere in lacrime: il mio obiettivo è stato da subito stringere i denti e curarmi. Solo così avrei potuto riprendere la mia vita».

Un guerriero…

«Sì, sono diventato un guerriero. Dal giorno dopo l’aggressione, i medici mi hanno detto che sarebbe stato un percorso difficile, faticoso e l’esito non era certo.

Ma non ho mai avuto dubbi sulla risposta: “andiamo avanti”. Operazioni chirurgiche, guaine, una maschera in silicone per due anni, trapianto di pelle, capelli e barba: non mi sono mai tirato indietro».

È per questo che nel libro scrive: “Sono cambiato per chi guarda ma non per chi vede”?

«Sì. Conservo le foto di otto anni fa nel cellulare, ogni tanto le guardo e penso: “ero messo male”. Ora, invece, mi vedo molto migliorato. I medici stessi hanno definito i miei progressi “un miracolo”. Questo ha confermato che la lunga sofferenza che ho dovuto sopportare è stata ripagata: i risultati che volevo li ho ottenuti».

Cosa ha pensato quando si è guardato per la prima volta allo specchio dopo l’aggressione?

«Non mi sono specchiato subito. Ho preferito aspettare circa un mese. Ricordo bene quel momento. Ero in ospedale in preda alle prime cure, quelle più difficili. L’ultimo ricordo del mio volto era prima dell’agguato per cui, avvicinandomi allo specchio, ero molto intimorito. Avevo solo il sopracciglio sinistro, metà capigliatura e poca barba. Ma ero fiducioso dei medici, non mi sono mai demoralizzato».

Ha avuto mai paura del giudizio della gente che la guardava?

«È normale avere gli occhi addosso quando si ha un volto sfregiato e tutti i telegiornali che ne parlano. Mi sono sentito osservato, ma non mi sono mai fatto condizionare, tanto che il giorno dopo essere uscito dall’ospedale, dove ho passato tre mesi, sono andato fuori a cena con i miei amici».

Il giorno dopo?

«Sì, col volto sfregiato ben visibile. Non è da tutti, lo so, ma io ho sempre avuto accanto amici e parenti che mi hanno supportato, senza mai giudicarmi. Grazie a tutti loro ho abbattuto quel muro di insicurezza che mi affliggeva e ho subito ripreso a vivere. Quando il dolore viene condiviso è più facile superarlo».

Perché ha scritto questo libro?

«Per dimostrare che si può andare avanti, che si può davvero rinascere. Siamo noi che decidiamo come e quando rialzarci. Ma bisogna avere tanto coraggio ed è proprio nei momenti bui che scopriamo di avere una forza interiore che prima non conoscevamo. Io l’ho tirata fuori e oggi amo la vita più di prima, anche nei momenti difficoltà». 

 

Ultimo aggiornamento: Lunedì 3 Ottobre 2022, 11:54
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